martedì 13 ottobre 2009

La socialdemocrazia ai tempi della crisi


di Alberto Rossini.


Il dibattito nel PD tra una discussione e l’altra su Franceschini, Bersani e Marino mi pare che intelligentemente si stia occupando anche di questioni più generali. Perciò ringrazio Chicchi e Rossano che, in modo diverso, mi hanno sollecitato queste riflessioni.

La socialdemocrazia è in crisi da tempo, tuttavia la resa del PSD in Germania ne sancisce la fine. Il tema non è nuovo, ma va ripreso poiché ancora oggi molta parte della sinistra e lo stesso PD nel guardare al futuro si riferisce a quel modello di governo della società. Per dirla chiaramente sia la mozione Franceschini e soprattutto quella Bersani vedono nella socialdemocrazia un riferimento ideale. In realtà quella forma di governance entra in crisi già alla fine degli anni ’70, almeno per tre motivi:
1) l’affermarsi della globalizzazione riduce drasticamente i margini di potere dello Stato-Nazione, diversamente da come era avvenuto nel dopoguerra. I poteri di controllo degli Stati vengono scavalcati dal nuovo ruolo del capitale finanziario internazionale, dalla forza dei gruppi multinazionali, dall’esplodere dei flussi di persone e merci tra un Paese e l’altro, non più arginabili con i semplici provvedimenti dei singoli Stati.
2) La prorompente vittoria del neo liberismo con la Thatcher in Inghilterra e con Reagan negli Usa. A quel punto la sinistra europea ripensa la propria prospettiva pratica e teorica e nasce la “terza via” che vuole smussare gli angoli del nuovo corso piuttosto che attuare un nuovo modello di sviluppo.
I Laburisti, infatti, costruiscono il ritorno al governo sulla base di una filosofia elaborata da Giddens e Brown che arretra anche rispetto all’idea di intervento di stampo keynesiano. La dimostrazione sta nel fatto che sia in Gran Bretagna che negli Usa, con Blair da un lato e Clinton dall’altro, le differenze sociali non sono diminuite e certi disagi della povertà sono stati limitati più per gli interventi di fondazioni e privati che per la presenza di precise politiche sociali.
3) L’ultimo fattore è la diminuzione della capacità di spesa degli Stati. La socialdemocrazia presuppone un welfare particolarmente efficace che però ha il difetto di costare molto ed in una fase in cui le casse delle pubbliche amministrazioni sono in difficoltà, il sistema del welfare universale non ce la fa più, collassa ed i più deboli vengono tendenzialmente lasciati a sé stessi.
Del resto il pensiero della nuova destra considera gli ultimi come responsabili del proprio destino e quindi lo Stato se ne deve occupare marginalmente e con due modalità: confidando molto sul ruolo “sussidiario” dei privati e con l’elargizione di un temporaneo sussidio in denaro.
Del resto nel recente passato “ha avuto la meglio una sorta di diffuso senso comune secondo cui è meglio che la politica si arrenda o addirittura si consegni all’economia e alla sua forza di cambiamento. Libertà totale concessa al gioco dei capitali, appoggio incondizionato agli operatori economici considerati come portatori automatici di vantaggi per tutti, esaltazione delle forme di una gara concorrenziale sempre più radicale”. Anche nella sinistra fa breccia la convinzione che “la liberalizzazione assoluta delle forze dell’economia rappresenta di per se stessa un vettore di progresso” (G. Berta, Eclisse della socialdemocrazia).
Ecco credo che molta parte della sinistra si sia rifiutata di pensare diversamente. Abbiamo rinunciato ad altre pratiche e a nuove idee.
La socialdemocrazia è stata sconfitta, non possiamo riesumarla, dobbiamo pensare a nuove forme di intervento sociale. Tutelare di meno i già garantiti, destinare più risorse per l’innovazione e lo sviluppo, legare di più al territorio le forme di assistenza ai più deboli e alle categorie più fragili.
Insomma visto che ci sono meno risorse è necessario concentrarsi sui servizi e sulle opportunità da offrire. A fronte di un lavoro sempre più flessibile la risposta migliore è il salario minimo garantito legato alle persone più che ai luoghi e ai settori di lavoro. Ma è altrettanto importante informare, assistere, professionalizzare, chi rimane senza lavoro. Credo che si possa saldare una visione che unisce solidarismo di matrice socialista, e attivismo di ispirazione cattolica. Molti servizi sociali e molti istituti privati (gli enti bilaterali, ad esempio) possono essere rivisti, risparmiando risorse da investire in ricerca e sviluppo. Oggi la ricchezza non sta in quello che si spende ma nel capitale sociale e nel patrimonio di sapere delle persone e delle comunità locali.
Anche con le imprese bisognerebbe lavorare in questa direzione concedendo meno sovvenzioni ed invece sostenendo le azioni che guardano di più alle strategie e ai risultati di lungo periodo, abbandonando la massimizzazione immediata del profitto. Certo il capitale finanziario impone regole diverse. Ma qui sta il compito dei Governi che debbono saper superare la crisi dello Stato Nazione, adottando e rispettando regole sovranazionali che debbono valere anche per i diritti delle persone. In tal senso alcune riflessioni approfondite le ha compiute il “movimento” ispirato a Seattle. Il rimando teorico è alla sintesi di Negri e Hardt, che parlano di moltitudine come un nuovo soggetto capace di stare al passo con la globalizzazione.
La sinistra, nata per essere internazionale, ha perso nel tempo questa dimensione e l’ha lasciata in mano al capitale. E’ necessario riprenderla e non farsi spaventare dalla globalizzazione, al contrario usarla come possibilità di crescita dei diritti delle persone, provando a mettere insieme il livello delle vite e delle opportunità locali con il globale, da cui possono venire pericoli (immigrazione e concorrenza selvaggia) ma anche occasioni (integrazione e diritti sovranazionali). Voglio dire che il rischio della globalizzazione va corso fino in fondo con l’obiettivo di coglierne le opportunità. Così come la necessità di ridurre le spese per il welfare universale può servire per ridefinire l’intervento del pubblico, ripensandolo radicalmente, non per fuggirlo ma per cambiare il modo in cui si interviene. Più attenzione, ad esempio per i giovani, per gli studenti, per i nuovi arrivati e meno assistenzialismo per pensionati, anziani, lavoratori garantiti. Così come vanno ridotti i fondi destinati alle imprese per le quali conviene intervenire per la realizzazione delle infrastrutture utili per competere in Italia e all’estero. Mi chiedo quanto potremmo risparmiare evitando le grandi opere che non fanno sistema e non servono ai territori. Insomma no al Ponte sullo Stretto e sì alle opere di consolidamento, alla valorizzazione del paesaggio e dei beni storici, agli interventi legati all’economia ambientalmente sostenibile.
Un nuovo welfare e una nuova idea di intervento dello Stato passa da ipotesi di questo tipo che in ogni caso presuppongono un’articolazione delle decisioni basate su uno Stato federalista anche dal punto di vista fiscale. Solo così i territori si potranno esprimere al meglio, non proponendo egoismi e chiusura, ma accoglienza, rispetto e valorizzazione delle persone.
Per cominciare non c’è bisogno di aspettare le grandi riforme dello Stato, si può partire anche dal locale rivedendo la spesa storica del pubblico, mettendo più risorse per la scuola e la formazione e potenziando le imprese ed i settori dell’eccellenza produttiva e professionale.

1 commento:

  1. "Jamaika Koalition" nella Saar, rosso-rosso in Brandeburgo. Il bello della politica, in Germania, viene adesso e comincia dagli esperimenti regionali. Grandi polemiche, qualche aspettativa e molta curiosità

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