mercoledì 30 settembre 2009

La nouvelle vague del Pd riminese


Questa tornata di congressi (o convenzioni...) merita davvero che ci si soffermi sui dati che hanno fatto emergere.

L'aspetto certamente più importante è un'affluenza di tutto rispetto anche a Rimini ai seggi organizzati dai vari circoli (oltre 2000 presenze), a testimonianza di un'attenzione attorno a questo congresso che va ben oltre l'opprtunistico silenzio televisivo con cui tutte (o quasi) le reti nazionali hanno, o meglio non hanno, trattato il congresso dell'unico partito italiano che decide di sè stesso tramite un congresso.

Siamo diversi (e spesso migliori) da tutte le altre forze politiche anche per motivi come questo.

Certamente un altro dato da ascrivere a un percorso di maturità politica intrapreso dal PD sta nell'aver visto, tra le due mozioni maggioritarie sfumare finalmente (almeno in parte, ma è gia' un inizio...) quella contrapposizione ex-DS con Bersani e ex-Margherita con Franceschini. Sia a livello nazionale che a livello locale diversi esponenti provenienti da un campo si sono schierati in quello opposto (anche se non sempre per motivi cristallini). Sia a livello nazionale che locale.

Direi piuttosto che queste due mozioni abbiano pagato, rispettivamente, un altro scotto.
Parlando di Rimini, la mozione Franceschini ha probabilmente contato troppo sul "bacino d'utenza" dell'area ex-margherita (n.d.r chi scrive ha aderito a questa mozione e per essa è delegato provinciale, ovviamente per questo circolo). Tra ex sindaci e ex onorevoli e un coordinamento sicuramente capace, la mozione Franceschini riminese puntava sicuramente a strappare qualcosa di più (ben al di sotto del 30%). La percezione della mozione sul territorio è stata, per molti versi, quella della "mozione dei dinosauri", che nonostante la statura, anche storica, dei suoi rappresentanti e i temi a sostegno (a partire dalla struttura aperta del partito fino alla sua vocazione maggioritaria) ha pagato la lontananza di molti suoi aderenti dalla politica sul territorio, come se si percepisse che si aderiva alla mozione non per i suoi temi, ma per un senso di appartenenza, una sorta di "deriva correntizia". Il tutto senza poter quasi contare sull'appoggio della potenza di fuoco di amministratori in carica.

Evidentmente (lo dicono i numeri) tale approccio ha mostrato il suo limite.

Da notare come invece laddove c'è stato il cosiddetto voto disgiunto (tra voto nazionale voto regionale) questo è stato il più delle volte a farvore di Mariangela Bastico.


Sulla potenza di fuoco degli amministratori in carica ha invece potuto contare (e a piene mani) la mozione Bersani. La sua affermazione non è mai stata in discussione. Se mai sono le proporzioni dell'affermazione a confermare come, nonostante quasi tutti i pezzi da 90 del partito fossero in campo in prima persona (da cui la ormai stra-abusata definizione di "mozione degli assessori", valida un po' per tutta la regione, s'intende), il consenso sia stato tutt'altro che bulgaro.

Per tanti versi valgono, anche per la mozione Bersani, le medesime considerazione fatte sulle adesione alla mozione Franceschini. Ovviamente a parti inverse. Cioe' si contava sul "bacino d'utenza" complementare, ovvero quello ex-DS. Bacino evidentemente piu' ampio di quello ex-Margherita.

Ma anche in questo caso il conto non torna. Certamente la mozione-Bersani ha vissuto soprattuto di rendita: da un lato, grazie a un radicamento ancora maggioritario (anche se sempre piu' residuale) e dall'altro grazie all'artiglieria mediatica (chiariamo: perfettamente legittima) dei suoi esponenti, che poi sono la quasi totalita' delle cariche istituzionali della citta' e della provincia.

Insomma, le prerogative per un trionfo senza prigionieri c'erano tutte. Ma e' un trionfo zoppo.

La percezione di quella "deriva correntizia" di cui dicevo sopra, ha spinto un numero imprevisto di iscritti a mettere in discussione, anche per i bersaniani, la mozione e i suoi argomenti.

Evidentmente (e anche in questo caso lo dicono i numeri), tale approccio ha mostrato il suo limite.
La vera novita' (e parlo di novita' riminese) e' l'affermazione della mozione Marino.
Un 12% che e' stato preso senza avere, appunto, "bacini d'utenza", senza contare su padri e padrini, ma solo su argomenti e capacita' mobilitatrice. Nonostante io non vi abbia aderito, ho visto da vicino come, finalmente, soggetti nuovi hanno (seppur timidamente) debuttato sul palcoscenico politico.

Un esempio? I giovani.

Finalmente qualche ragazzo e qualche ragazza ha sentito di potersi spendere per il PD. Iniziative sul territorio, uso del web (questo blog ha visto esplodere il numero dei suoi contatti!) , argomenti e passione. Questi gli elementi che hanno prodotto il successo della mozione Marino, che pure non e' certamente priva di difetti, soprattutto in quanto eventuale forza di governo del PD e di sintesi tra le varie anime del PD.

Tale successo e' anche il successo di un metodo. Ovvero dei circoli. Cioe' di quel metodo che sulla carta doveva essere la spina dorsale del PD e che in troppi casi ha stentato.

Il 12% di Marino e' l'urlo nel silenzio. E' l' "eppur si muove" di galileiana memoria. E' finalmente il segnale di un disagio politico che non si manifesta con l'anti-politica o che alimenta derive qualunquiste, ma che vuole incidere nella vita politica della nostra citta' attraverso il PD.

Se i riflessi di questo successo arriveranno dove meritano, allora si potra' invertire la tendenza di una politica sempre piu' in crisi e di partiti che davanti a questa crisi sono sempre piu' impotenti.
Gli organi cittadini e provinciali che il PD si accinge a eleggere nei prossimi mesi ne sarnno la cartina di tornasole.

Le forze sane e capaci sono ovviamente presenti in tutte le mozioni (ci mancherebbe...) e la capacita' di sintesi dei vari esponenti dovra' essere in grado, democraticamente, di esprimere oltre che le persone, un metodo e non delle correnti.

Un metodo che, grazie anche a questo congresso, oggi conosciamo.


martedì 29 settembre 2009

I poveri per Ascanio Celestini


I poveri erano così affamati che presero la loro fame, la misero in bottiglia e andarono a vendersela. Se la comprarono i ricchi che nella vita avevano mangiato tutto dal caviale ripieno all’ossobucodiculodicane allo spiedo e volevano conoscere anche il sapore della fame dei miseri. Per un po’ quei poveri tirarono avanti, ma poi tornarono a essere poveri come prima. Allora imbottigliarono la loro sete e la vendettero ai ricchi che nella vita avevano bevuto tutto, dal Brunello al Tavernello ma non avevano ancora assaggiato la sete dei miseri. Ancora un po’ i poveri tirarono avanti, ma poco tempo più tardi tornarono nella povertà. Allora imbottigliarono la loro rabbia e vendettero ai ricchi anche quella. I ricchi che si erano sentiti indispettiti, che avevano avuto un po’ di rodimento di culo, ma la rabbia vera non l’avevano mai provata. Così se la comprarono dai poveri che ce n’avevano tanta. I poveri tirarono avanti, ma poi vendettero anche il loro pudore, la loro vergogna, il loro dolore. Imbottigliarono la commozione e l’insubordinazione, la violenza e il riscatto, la rivolta e la pietà. Col tempo le cantine dei ricchi si riempirono di bottiglie. Accanto ai grandi vini d’annata collezionavano la fame dei sanculotti della rivoluzione e la rabbia dei braccianti che occupavano le terre del Meridione. Tra gli spumanti e gli champagne trovavano posto la pazzia dei pellagrosi nelle campagne o l’orgoglio dell’aristocrazia operaia che aveva difeso le fabbriche dai nazisti e s’era guadagnata i diritti nelle lotte sindacali. Tra novelli e i passiti c’era il disgusto dei precari e dei senza casa o la determinazione dei Zapatisti che marciarono verso Città del Messico col passamontagna. Dopo qualche generazione i poveri s’erano venduti tutto. Erano diventati così tanto poveri che presero la loro povertà, la misero in bottiglia e se la vendettero ai ricchi che volevano essere così tanto ricchi da possedere anche la miseria dei miseri. Quando i poveri restarono senza niente si armarono. E non di coltello e forchetta, ma di pistole e fucili perché la rivoluzionenon è un pranzo di gala, la rivoluzione è un atto di violenza. Marciarono verso il palazzo. Però quando arrivarono sotto il balcone del podestà si fermarono e rimasero zitti. Perché erano armati, ma non avevano più né rabbia né fame, né orgoglio né sete, né disgusto né determinazione. E senza cultura e coscienza di classe non si fa la rivoluzione. Così il podestà scese in cantina, tornò con una bottiglia e la riconsegnò al popolo. C’era imbottigliata la libertà che avevano conquistato i loro nonni, ma che i padri s’erano già venduta da un pezzo. Potevano farci un inno o un partito, un circolo o una bandiera. La stapparono , ma non riuscirono a farci niente. Perché la libertà da sola non serve. Allora il podestà si cercò in tasca e trovò una scatola di caramelle alla menta. La consegnò al popolo. E da quel momento i poveri furono liberi. Liberi di succhiare mentine.

Ascanio Celestini (Modena - Festival della Filosofia - settembre 2009)

lunedì 28 settembre 2009

Se è così forte, dov'è il problema?



Girano delle voci.
La prima: domani Rutelli presenta il suo libro, La svolta, e forse il titolo è da intendersi che "il partito mai nato" (come Rutelli, con azzardatissimo riferimento, sottotitola) vada anche abbandonato.

La seconda: qualcuno vorrebbe che Franceschini si ritirasse dalla competizione delle primarie.
La terza: Bersani ha vinto tra gli iscritti e sarebbe sbagliato che alle primarie vincesse qualcun altro, magari qualcuno che ha preso meno del 40% nei Circoli. Ora, tutto è convenzione: per me votare due volte la stessa cosa è sbagliato, mi chiedo soltanto perché tutti abbiano votato queste norme regolamentari (anche quelli che ora si sorprendono). Detto questo, si è stabilito che il segretario lo fa chi vince alle primarie e, se nessuno dovesse superare il 50%, deciderà l'Assemblea nazionale, eletta con le primarie stesse. Questa è la regola, questa la convenzione: a me non piace, ma non l'ho scritta io, né l'ho votata. E regola e convenzione non si possono cambiare in corsa. Se Bersani è così forte, vincerà anche alle primarie, senza che nessuno debba rinunciare prima. Non capisco dov'è il problema.

Da Ciwati

AMBURGO E BERLINO, dedicato ai proporzionalisti


21 Settembre 2009 di Pierluigi Mennitti (che scrive, udite udite, sul Secolo d'Italia...)

I laboratori della politica tedesca del futuro non sono dentro i palazzi del potere federale. Non nel Bundestag, non nella Cancelleria. Ma nelle sedi comunali di due città-Stato: Amburgo e Berlino. Mentre l’attenzione degli osservatori è focalizzata sugli ultimi giorni della campagna elettorale politica, nelle due città simbolo della Germania, il centro anseatico e la capitale ritrovata, si sviluppano esperimenti politici che prefigurano gli scenari del domani. La chiave è nel federalismo. La struttura istituzionale del paese e quella regionale dei partiti, spesso indipendenti nelle loro scelte di governo dalle sedi centrali, permettono a livello locale soluzioni inedite e non ancora accettate a livello nazionale. Una sorta di officina politologica. Così da sette anni Berlino sperimenta un governo rosso-rosso, costituito dai socialdemocratici e dalla Linke e affidato alle cure del sindaco Klaus Wowereit. Da un anno e mezzo, in riva all’Elba, è in carica un esecutivo nero-verde, conservatori e verdi insieme, guidato dal borgomastro Ole von Beust. Entrambe queste soluzioni potrebbero contribuire fra qualche anno a sbloccare l’incertezza che ormai caratterizza il sistema politico tedesco, scardinato dall’irruzione della Linke, la sinistra radicale che raccoglie l’eredità del partito comunista della Ddr e un gruppo di socialdemocratici dissidenti legati a Oskar Lafontaine.
Per il momento, i partiti tradizionali escludono a livello nazionale qualsiasi collaborazione con la nuova forza della sinistra. Ma i giochi, chiusi al centro, si aprono in periferia. Berlino, come Amburgo, è città-Stato. Le loro assemblee non hanno solo funzioni comunali ma regionali, come quelle, ad esempio, della Baviera o dell’Assia. Quel che accade qui ha dunque una grande rilevanza per le future alleanze politiche. Ad Amburgo, nel febbraio dello scorso anno, i risultati elettorali avevano bocciato qualsiasi alleanza di tipo tradizionale: il calo dell’Spd rendeva impossibile un governo con i verdi, i liberali non avevano neppure superato la soglia del 5 per cento e lo sbarco della Linke aveva complicato le cose. Una Grosse Koalition era esclusa dall’incompatibilità anche personale fra i leader dei due maggiori partiti. All’algido von Beust, comunque vincitore della tornata, non era rimasto altro che intavolare le trattative con gli ecologisti, con i quali già in campagna elettorale aveva aperto canali di discussione. Una delle ipotesi su cui la Cdu sta lavorando sotto traccia a livello federale è quella che, con qualche concessione all’esotismo, viene chiamata coalizione Jamaica (dai colori dei partiti – nero, giallo e verde – che contempla la presenza anche dei liberali).
Ad Amburgo il giallo dei liberali mancava, ma i verdi da soli consentivano il raggiungimento della maggioranza necessaria. Così, con una buona dose di pragmatismo, gli sherpa dei due partiti regionali si sono seduti allo stesso tavolo per provare ad elaborare un programma di governo che mettesse insieme le proposte degli uni e degli altri. I temi economici ed energetici sono stati i più spinosi, ma alla fine le visioni filo-imprenditoriali dei cristiano-democratici e quelle ambientaliste dei verdi hanno trovato un punto di equilibrio: economia sociale di mercato e sviluppo sostenibile. Così la Cdu è diventata un po’ più ecologista, accettando di impegnare risorse nei settori delle energie rinnovabili e i verdi hanno moderato alcune storiche posizioni sui temi dei diritti. Ma anche su questi, come sull’impegno a investire di più nel settore dell’istruzione, l’accordo è stato trovato e l’esperimento politico è partito. A un anno e mezzo di distanza, l’esecutivo regge ancora, nonostante diversi momenti di frizione, e il modello Amburgo viene seguito con attenzione dalle segreterie nazionali dei due partiti.
A Berlino si gioca una partita opposta. Il sindaco Wowereit è un politico in ascesa, che non nasconde l’ambizione di lanciarsi definitivamente sulla scena nazionale (e come dovrebbe fare Errani in Italia... n.d.r.). Dopo aver messo fine nel 2001 alla Grosse Koalition berlinese con una coalizione rosso-verde appoggiata dagli ex comunisti (allora Pds), nel 2002 ha vinto le elezioni inaugurando un governo con la sinistra radicale. Ha superato la prima legislatura, rivinto nel 2006 e ora affronta l’ultimo anno del suo secondo mandato. Il binomio “rosso-rosso” è diventato il marchio con cui spera di passare dal Rathaus di Berlino alla Cancelleria, nel nome della riunificazione anche politica del paese: l’attuale Linke, nonostante l’apporto di Lafontaine, resta soprattutto un partito “orientale” ed è stato in grado in questi ultimi anni di superare i confini tradizionali del neo-comunismo, accreditandosi come una forza di massa capace di catalizzare sia le delusioni di coloro che sono insoddisfatti dal processo di riunificazione, sia le speranze di una più vasta area di sinistra. Nel governo di Berlino, la Linke ha mostrato sorprendenti doti di responsabilità, avallando anche politiche di risparmio indispensabili per un bilancio che aveva sfiorato la bancarotta finanziaria. Anzi, nella sua natura di partito doppio, la Linke appare più affidabile nei suoi quadri orientali, allevati alla cultura di governo della vecchia Sed comunista, che in quelli occidentali, cresciuti nelle utopie anti-capitaliste di stampo massimalista. Così come una futura alleanza fra Cdu e verdi è legata al successo del modello anseatico, anche il veto verso la Linke, che socialdemocratici e verdi ribadiscono per le elezioni del prossimo settembre, sarà superato se l’esperimento berlinese completerà il suo corso. E se le alleanze che potranno nascere nelle prossime settimane nella Saar e in Turingia confermeranno l’affidabilità governativa del partito di Lafontaine e Gysi. Così, mentre dopo il 27 settembre la coalizione che reggerà la Germania non lascerà troppo spazio alla fantasia di alleanze inedite, i prossimi anni potranno riservare molte sorprese, passando proprio dai laboratori di Amburgo e Berlino.
P.S. In Germania si tengono (con spirito non ufficiale, s'intende) le elezioni per i minorenni tedeschi, qui i risultati.

domenica 27 settembre 2009

Stavolta ci tocca


Obama all'Assemblea generale dell'Onu: "La democrazia non si impone dall'esterno".
Con questo prezzo al barile non ne vale la pena.
(Non so a cosa si riferisse, ma mi sa che stavolta tocca che ce la caviamo da soli)


Guardate le facce




Una narrativa adeguata ai tempi


L'articolo che segue e' una bella (e piuttosto lunga) riflessione sulla stato dell'arte della letteratura da parte di Valerio Evngelisti.
L'articolo e' lungo, ma il respiro della riflessione lo richiede. Solo per lettori piu' che abili...

La globalizzazione dell’economia, il ruolo egemone dell’informatica, il potere del denaro astratto, le nuove forme di autoritarismo legate al dominio delle comunicazioni sembrano lasciare indifferenti gli scrittori di letteratura “alta”, quanto meno in Europa. Nella maggior parte dei loro romanzi il mondo pare rimasto immutato. Prevalgono le storie intimiste, identiche a quelle che avrebbero potuto svolgersi cinquanta anni fa, o che potranno svolgersi tra cinquant’anni. Amori, passioni e tradimenti continuano a consumarsi entro contesti dai colori tenui e dalle luci soffuse, in cui si annusa la polvere e il borotalco. Ci sono eccezioni, certo; ma rimangono isolate e non alterano il quadro generale, minimalista a oltranza.Lo stile fiacco, estenuato, viene considerato realista. A esso apparterrebbe la verità, tanto da farne l’unica forma di letteratura veramente nobile. Poco importa che l’autore, se non ha tempo da perdere, batta il proprio testo su un computer e lo spedisca per posta elettronica. Poco importa che i tempi di stampa si siano più che dimezzati grazie a nuove tecniche tipografiche. Queste innovazioni vili non possono riflettersi nella storia narrata, salvo contaminarla e ridurne la carica di sublime. La prosa “realistica” si colloca fuori del tempo. Ciò che vi sta dentro è robaccia.Certo, la letteratura “bianca” si trascina dietro la propria antitesi, il roman noir. Qui il sociale, la strada, la vita metropolitana, il conflitto hanno un ruolo importante. Non ve ne hanno, però, salvo rari casi, le strutture planetarie del sistema, i cambiamenti epocali, le modificazioni psicologiche e comportamentali indotte dallo sviluppo tecnologico. La vicenda si risolve, in fondo, nello scontro tra pochi individui animati da passioni eterne: l’odio, la vendetta, l’amore, la sete di giustizia. Il massimalismo della cornice si risolve nel minimalismo dello svolgimento. Poliziotto corrotto, o dubbioso, o onesto, contro criminale onesto, o dubbioso, o corrotto. Non è sempre così, per fortuna, ma lo è assai spesso. Se non altro, però, viene chiamato in causa il sistema nel suo assieme. E’ un minimalismo più grande, o un massimalismo rimpicciolito.Due passi avanti e uno indietro.Il fatto è che, oggi come non mai, il sistema si è diluito a livello di continenti, e il controllo sulle vite individuali è passato a centrali di potere anonime e distanti. Un volume di scambi vertiginoso decide nello spazio di una giornata centinaia di migliaia di destini. Una fabbrica chiude in Francia, una rivolta esplode in Indonesia, un’industria italiana sposta la produzione in Albania, un avventuriero guadagna miliardi in Australia e li perde in Spagna il giorno successivo. A tutto ciò, si accompagna una miriade di drammi che nessuno si incarica di registrare. E, quando si va a vedere chi è l’agente di tante tragedie, si scopre che si tratta di azionisti inconsapevoli che hanno affidato i propri risparmi a un gestore di fondi. Ma anche questi è parzialmente inconsapevole: tutto ciò che conosce è il mercato. E il mercato non è un’entità fisica, ma un’assieme di equilibri retti da norme. Chi ha dettato quelle norme? I governi. Ma anche i governi sono inconsapevoli, seppure in minima parte: assumono decisioni in sintonia con altri governi, che a loro volta sono condizionati dai governi più forti. E a chi obbediscono questi ultimi? In realtà a nessuno, in teoria al mercato…Se si cercasse il vero elemento scatenante, forse si finirebbe per scoprirlo nel professore alcolizzato di una piccola università americana di provincia. Costui, in un momento di delirio etilico, ha elaborato una teoria basata sul nulla, ma molto in sintonia con quelle che erano, in quel momento, le esigenze politiche del suo governo. La teoria si miscela all’ideologia, il composto si trasforma in politica, la politica si converte in comando, il comando si fa potere. Il disoccupato sa a quel punto chi ringraziare. Anzi, non lo sa. Non lo sa nessuno. Mentre la letteratura “alta” si compiace di ignorare tutto ciò, nei piani bassi della narrativa c’è chi ne ha fatto da tempo il proprio oggetto.Alludo alla fantascienza.Non a tutta, è chiaro.Se c’è una cosa che vi abbonda è la paccottiglia. Ma il genere è per sua natura massimalista, e incline a occuparsi di grandi temi: trasformazioni su larga scala, sistemi occulti di dominio, società alternative, effetti tragici o bizzarri della tecnologia. Come il più balordo degli spaghetti-western poteva contenere grande cinema, così il più illeggibile dei romanzi di fantascienza può contenere grandi intuizioni. Magari si disperderà in avventure fini a se stesse, in profili psicologici abborracciati, in semplificazioni degne di una favoletta per bambini. Ciò che non potrà mai tollerare è il minimalismo, estraneo al suo codice genetico.E’ solo nella fantascienza che si trovano descrizioni realistiche (sì, realistiche!) del mondo in cui viviamo. Quale altro genere letterario ha mai dedicato un romanzo ai meccanismi delle crisi economiche? Nessuno. Prendete invece Depression or Brust (1974) di Mack Reynolds. L’annullamento dell’ordinazione di un frigorifero, da parte di un uomo qualunque, provoca il fallimento del concessionario, poi della casa produttrice, poi, di gradino in gradino, il crollo dell’intera economia statunitense. La storia non ha un protagonista vero e proprio che non siano la crisi in sé e la fragilità complessiva del sistema. Non sarà letteratura raffinata, ma non la si può relegare nell’ambito dell’effimero e dell’irrilevante. Il tema è tanto forte da non lasciarsi emarginare. Risaliamo indietro. Prendete Hell’s Pavement di Damon Knight (1955). In una società di poco futura rispetto alla nostra, viene trovata la medicina definitiva contro il crimine. Ogni delinquente abituale viene condizionato ad avere allucinazioni al momento di commettere un misfatto. La trovata finisce però nelle mani di alcune multinazionali, che l’adattano ai loro scopi: il misfatto supremo, che provoca le allucinazioni, è acquistare i prodotti di una società concorrente. Risultato: il mondo intero si divide in aree di potere, in cui ogni multinazionale esercita il proprio dominio imponendo ai cittadini le allucinazioni a lei favorevoli.Fa sorridere? Be’, io non sorrido troppo. Vivo in un paese in cui un intero movimento politico è sorto da un momento all’altro, per via del fatto che il suo leader possedeva una rete di catene televisive… Sempre in tema di allucinazioni, un autore italiano di fantascienza, Vittorio Curtoni, scrisse una ventina di anni fa alcuni racconti che avevano al centro una guerra futura. Le parti in lotta avevano fatto uso di armi psichedeliche. La conseguenza era stata quella di creare un’umanità ormai incapace di distinguere il vero dal falso, e anche di riconoscere se stessa come appartenente a un’unica comunità solidale… Chi abbia ancora in mente l’orgia di false notizie, presentate dalle fonti più autorevoli, che ha accompagnato la guerra nel Golfo e quella nel Kossovo, ha già capito a cosa alludo. I neonati che gli uomini di Saddam Hussein avrebbero strappato alle incubatrici, i 700 bambini kossovari che sarebbero stati rapiti e sottoposti a trasfusioni di sangue a favore dei soldati di Milosevic… Altrettante false notizie, che inducono a pensare che la guerra allucinogena sia veramente cominciata. Non voglio dilungarmi con gli esempi. Me ne permetto un ultimo.Ho alluso alla difficoltà di trovare chi regga, oggi, le leve del potere. C’è un delizioso racconto di Jack Vance che si intitola Dodkin’s Job (1964). Un operaio è sconcertato dagli ordini irrazionali che, in una società rigidamente suddivisa in classi, gli pervengono dall’alto. Si mette alla ricerca di chi li emana. Dopo lunghe indagini, scopre che non provengono da nessuno. O meglio, è un anziano custode dei palazzi del potere che si incarica di batterne l’abbozzo su una vecchia macchina da scrivere. E’ poi l’intero sistema che li fa propri, li deforma e li muta in assurde imposizioni. A prima vista, poco più di una barzelletta. In realtà, un apologo sulla mancanza di democrazia che può manifestarsi nelle moderne forme del vivere civile, quando il comando si esercita senza controllo. Attraverso la metafora, la fantascienza ha saputo cogliere meglio di qualsiasi altra forma narrativa le tendenze evolutive (o involutive) del capitalismo contemporaneo. Ciò le ha permesso di frequente di superare i limiti della letteratura e di dilagare nel costume, nei comportamenti, nel vocabolario d’ogni giorno, nel vivere quotidiano. La corrente detta cyberpunk, attiva fino a una decina di anni fa, ne costituisce il principale esempio. Per la prima volta nella storia, molto in anticipo sugli attuali sviluppi di Internet, una folta schiera di scrittori assumeva a tema dei propri romanzi l’informatica, quale forma di connessione tra uomo e macchina.Romanzi “fantastici”, lontani da quel realismo che è ritenuto forma letteraria privilegiata? Mi si permetta di dubitarne. Allorché Internet si è imposta, le opere di Gibson, Sterling, Rucker ecc. hanno fornito alla nuova realtà la terminologia adatta a descriverla, oltre a una mappa dei suoi possibili futuri. Più ancora, hanno indicato a gruppi di oppositori le vie per una possibile resistenza, culturale e pratica, alle minacce implicite nell’emergere di una rete comunicativa onnipresente, capace di riprodurre i rapporti di dominio sul terreno insidioso dell’immaterialità. Si sono visti spezzoni dell’ultrasinistra europea, influenzati per loro stessa ammissione dalla narrativa cyberpunk, creare la rete ECN (European Counter Network) e usare per primi la rapidità del nuovo sistema informativo per coordinare le proprie iniziative. I centri sociali dei giovani antagonisti si sono riempiti di modem e di computer, regolarmente distrutti dalla polizia durante le proprie irruzioni. Gli hackers hanno condotto titaniche battaglie individuali contro i grandi gruppi economici, rallentandone l’accesso al Web e la conquista del suo controllo. Si era già visto la letteratura popolare influenzare la vita concreta (penso al feuilleton ottocentesco e alle ricadute sociali dei romanzi di Sue), ma mai in forma così massiccia e sistematica. Tanto che il cyberpunk si è estinto non per debolezza propria, ma perché era divenuto superfluo, a fronte del proprio dilagare fuori del campo narrativo.Non credo che altre correnti letterarie possano vantare una fine tanto gloriosa.Viene il sospetto che il fantastico, e in particolar modo la fantascienza, rappresentino il solo modo per descrivere adeguatamente, in chiave narrativa, il mondo attuale. E’ un mondo in cui l’immaginario ha assunto un peso sconosciuto in precedenza. Se dovessimo riformulare una teoria del valore (e sarebbe quanto mai necessario), dovremmo aggiungere l’informazione ai fattori individuati dalle varie scuole economiche. Quantità di lavoro contenute nelle merci, scarsezza dei beni, gioco tra domanda e offerta non bastano più. Una merce è tanto più richiesta quanto più è conosciuta, e il suo valore cresce di conseguenza.. Il capitalismo tradizionale si accontentava della pubblicità. Oggi penetra oltre: nella fantasia, nei sogni, nelle visioni del mondo più intime. La crescita della comunicazione gli ha offerto il destro per fare ciò, imponendo modelli di vita, creando bisogni dove non ce n’erano, accrescendo la sete di affermazione individuale. Non si capisce nulla della società attuale se non si tiene presente la rapida colonizzazione dell’immaginario che è stata attuata in questi anni. Una volta si svolgeva un ruolo produttivo per un certo numero di ore al giorno, e il resto del tempo era dedicato alla ricreazione e al riposo, cioè a se stessi. Oggi le attività ricreative, tutte basate sulla comunicazione, espandono l’area della produttività a detrimento dell’ozio e della quota di riposo. Praticamente ogni spettacolo televisivo contiene incitamenti all’acquisto, si tratti di pubblicità esplicita o di riferimenti ai modi di vivere ritenuti ottimali per tutti. Si sono visti interi rivolgimenti sociali dovuti all’immagine: la corsa alle merci occidentali dopo la caduta del muro di Berlino, l’afflusso massiccio di albanesi in Italia sull’onda delle trasmissioni televisive captate oltre Adriatico… Ma un conto è l’informazione, un conto è la manipolazione. La comunicazione capitalistica punta ormai direttamente all’inconscio. La produzione di simboli, un tempo affidata a evoluzioni secolari, è diventata frenetica. Lo smarrimento della propria identità è spudoratamente agevolato. Di contro, informazione e comunicazione sono state scisse quando ci sono in ballo grandi temi. Tragedie immense sono state ridotte a sequenze velocissime di immagini, tanto veloci da non sedimentare nulla. Assistere a un notiziario della CNN significa non assistere a niente. Se ne esce con una serie di nozioni inservibili, dato che mancano di antecedenti, di analisi, di riflessione. Il fatto è che il grande nemico comune, per chi controlla i destini altrui (sia pure in forma anonima), è la profondità. Il sistema sopravvive solo se chi è subalterno vive in superficie. Salvo l’esigenza di far penetrare nel suo intimo, e perfino nella sua psiche, false informazioni e false simbologie perché non si accorga della propria condizione. La fantascienza, il fantastico, la letteratura che ha al proprio centro l’immaginario, hanno il potere di fortificare la fantasia contro queste aggressioni. Lo usano meno del dovuto, e talora non lo usano affatto. La fantascienza statunitense contemporanea è lo spettro di ciò che era: standardizzata, miserabile, si riduce a forme spurie di divulgazione scientifica, nulle sul piano letterario e su quello intellettuale. Non le giova l’avere rinunciato, in nome del politically correct, all’ambiguità e alla provocazione. Ma non c’è da attendersi che sia il mainstream, tanto indifferente alla società che lo circonda da avere fatto del disimpegno e del ripiegarsi su se stessi un criterio qualitativo, a guidare la resistenza contro la colonizzazione dell’immaginario.Occorre una narrativa massimalista, autoconsapevole, che inquieti e non consoli.La fantascienza lo era.Può tornare a esserlo.
Valerio Evangelisti
Inoltre, qui, Giuseppe Genna si riallaccia all'articolo che avete appena letto e si spinge oltre. Davvero un dibattito interessante.

sabato 26 settembre 2009

Allons enfant...



Avevamo postato (su altro blog) che il circolo di San Giuliano a Rimini era il più "mariniano" d'Italia. Cosa a tutt'oggi vera.
Simpaticamente riceviamo dal congresso del circolo PD di Parigi (sempre tramite altro blog) e volentieri pubblichiamo quanto
segue:


@Rossano: ti farà rabbia sapere che noi qua a Parigi abbiamo appena concluso il nostro congresso e i risultati sono i seguenti:
Bersani 9
Franceschini 3
Marino 40
Col 77% dei voti, direi che siamo i più mariniani del Mondo. Tiè:)



Oh, la grandeur francese non si smentisce mai...:)

La caverna di Platone


Schiavi della comunicazione?
Dalla mattina alla sera imperversa il “dibattito”. Cosa ha detto Berlusconi, cosa ha risposto Franceschini, cosa dirà Fini. E poi ancora quale trasmissione va in onda, quale articolo tiene banco, chi c’era in quello show e chi si è visto in quel reality. Mi aspetto che si avvii una riflessione sugli effetti della crisi che non sono contingenti ma, come si sarebbe detto una volta, strutturali. Invece no, dominano le vicende delle escort, la tv di Vespa, le partite di Champions, i talk show.
Nel nostro tempo sono venuti meno i fatti. Non nel senso che intende Travaglio, ovvero non ci sono più per colpa della censura preventiva che li nasconde e basterebbe del buon giornalismo e più libertà per farli tornare. No, è che dei fatti noi non sappiamo più che farcene. I fatti non li vogliamo né vedere, né sentire. Non vogliamo più farne esperienza. Li rifuggiamo punto e basta. Siamo arrivati al punto di chiamare reality, trasmissioni costruite sull’assillante ripresa televisiva di persone che vivono recitando. Se però sull’autobus accade qualcosa, una rissa, un furto o due che si baciano, guardiamo dall’altra parte perché la realtà fa paura e non sappiamo come affrontarla.
Ogni schermo (tv, videotelefonino, monitor pc, ecc.) ci attrae perché rinvia alla finzione o ad una visione mediata dei fatti. Siamo nella caverna di Platone, ma nessuno ci tiene in catene, le catene le mettiamo noi stessi. Quello che non capisco è come si possa dire che una volta c’erano le ideologie che ci impedivano di cogliere la realtà delle cose, mentre oggi saremmo finalmente liberi. Mi pare invece che mai siamo stati così dentro un’ideologia dominate come quella che ora pervade l’Italia e non solo. Siamo dentro un’enorme fiction in cui tutti siamo spettatori.
Ciò accade nell’epoca della comunicazione di massa che avrebbe dovuto renderci più liberi con la proliferazione delle tv, con i telefonini che catturano le immagini, con le radio che possono trasmettere da qualsiasi posto e dovunque. Invece le immagini che vediamo sono sempre le stesse. Neppure sul web, che ha enormi potenzialità, c’è qualcosa di differente. Dell’Afghanistan, delle guerre in corso, o dei disastri ecologici sappiamo davvero qualcosa? Nessuno può vedere come si vive in posti che, a dispetto della tecnica, sono lontani come un secolo fa. Non ce le fanno vedere queste immagini o siamo noi che non vogliamo vederle? Quanti di noi “vedono” i poveri di Rimini, i disoccupati, i senza casa, i malati?
Noi rimuoviamo tutto, convinti che a noi non succederà mai niente di male. Lo Stato ci protegge e la scienza ci aiuterà a risolvere tutti i problemi. E’ questa l’ideologia dominante: gossip quotidiano e incrollabile fede nelle “magnifiche sorti e progressive”.
La comunicazione è salvifica. Non è né vera, né falsa. Né buona né cattiva. Semplicemente indifferente. Passa alla velocità della luce. Muore nell’istante in cui nasce. E’ l’attimo che non lascia traccia. Siamo immersi in un eterno presente che non ha storia e non ha futuro, in cui tutte le cose hanno lo stesso peso e lo stesso valore. Sono solo messaggi, immagini, informazioni che immediatamente fruite perdono ogni interesse.
Finisce per esistere solo ciò che la comunicazione veicola, tutto il resto è finzione. Il fatto si dissolve in notizia, l’evento diventa un simulacro al di là del vero e del falso, l’azione si liquefà in comunicazione. In questo mondo il presidente del consiglio non può che essere Silvio Berlusconi.

Alberto Rossini

venerdì 25 settembre 2009

Vota La Trippa!


Ieri sera si è svolto il Congresso di Circolo di San Giuliano.
Il seggio è rimasto aperto per 6 ore (il massimo consentito dal regolmento), dalle 17 alle 23.
Il dibattito è stato animato dai 3 rappresentanti delle 3 mozioni, ovvero:
Alessandro Francioni per la mozione Bersani-Bonaccini
Alberto Rossini per la mozione Franceschini-Bastico
Rossella Salvi per la mozione Marino-Casadei

E vai con i numeri.
Su 150 aventi diritto al voto, hanno votato in 95. Ovvero il 63,3%.

Elezione del segretario nazionale
Pierluigi Bersani 26 voti
Dario Franceschini 13 voti
Ignazio Marino 55 voti

Schede bianche 0
Schede nulle 1

Totale 95

Elezione del segretario regionale
Stefano Bonaccini 20 voti
Mariangela Bastico 19 voti
Thomas Casadei 52 voti

Schede bianche 4
Schede nulle 0

Totale 95

Il Circolo di San Giuliano elegge, in base al regolamento, 7 delegati.
Pertanto, i 7 delegati eletti alla convenzione provinciale sono ripartiti come segue:

2 delegati per la mozione Bersani-Bonaccini
1 delegato per la mozione Franceschini-Bastico
4 delegati per la mozione Marino-Casadei

I delegati eletti per la mozione Bersani-Bonaccini sono:
- Alessandro Francioni
- Sabrina Zanetti
I delegati eletti per la mozione Franceschini-Bastico sono:
- Rossano Lambertini
I delegati eletti per la mozione Marino-Casadei sono:
- Grazia Nardi
- Domenico Giannini
- Rossella Salvi
- Roberto Maldini


Dicevamo di Comunione e Lberazione


Dal blog di Mattia Carzaniga

Questa è una storia milanese. Una di quelle che fanno grande la nostra città. Ieri sera ho fatto un salto alla Paolo Grassi, storica scuola civica d’arte drammatica. Gli allievi stanno protestando da giorni, in stile collettivo, perché a un mese dall’inizio dei corsi il loro direttore Maurizio Schmidt è stato sollevato senza ragioni, se non politiche. Le stesse per cui, qualche anno fa, la “fatina” Maria Giovanna Elmi era diventata direttore del Teatro Stabile di Trieste, tanto per fare un esempio. C’era Lella Costa (sempre nel pacchetto, quando si tratta di proteste di sinistra meneghine), e ci sono i sopravvissuti del mondo della cultura milanese a sostegno dell’accademia e dei suoi ragazzi. Al di là dei meriti didattici della direzione in ballo, questa è una storia che ben testimonia quel che sta accadendo in città. Un’occupazione sistematica di ogni spazio, anche culturale. Ho scoperto ieri che il sindaco Letizia Moratti ha fatto la “voce recitante” (sic) a uno degli eventi di Mito, cosiddetto fiore all’occhiello della cultura cittadina: e allora, ci si chiede, a che serve “allevare” nuove attrici nelle filodrammatiche varie (per non dire di un’altra Letizia, Noemi, che «mi sono fatta le ossa con il teatro»). È da un pezzo che non vado a teatro, perché il più delle volte è anche colpa dell’offerta artistica. E di una generazione che ha fatto grande la cultura milanese dei decenni passati, ma che ha clamorosamente perso, anche per colpe proprie, vedi alla voce “autoreferenzialità”. Ma le storie come quella che vi ho raccontato non ci piacciono. Ci resta una città bellissima ma votata al berlusconismo, che si è insinuato non solo nelle istituzioni (con l’aiuto di CL), ma anche nei luoghi della cultura, e in ogni interstizio “sociale”. E sapessi com’è strano, sentirsi ancora innamorati di Milano.

giovedì 24 settembre 2009

Chi lo dice al ministro Zaia che le “Memorie di Adriano” non le ha scritte Adriano?


Da "IL GAZZETTINO" di venerdì 18 settembre 2009, di Giorgio Gasco.

Il ministro Luca Zaia scava nella storia cercando elementi a supporto della proposta della Lega di far tornare in auge il dialetto, a partire dalla scuola. Il trevigiano è andato oltre, suggerendo fiction tv in veneto.


È giusto insegnare la lingua dei padri, ma quale lingua visto che quella veneta non è omogenea in regione? Chiamato in causa dal "Gazzettino", il leghista non si sottrae e per essere coerente risponde nella lingua dei padri.


Luca Zaia, scusi l`ignoranza, in senso etimologico, cosa c`entra l`imperatore? «Sta scritto nelle sue memorie: "Dovunque si ricordano le mie opere con scritte in latino. Ma io ho sempre vissuto e pensato in greco»
(n.d.r. l'ha scritto Marguerite Yourcenar).
Il veneto è una lingua?
No perché non ha i canoni tradizionali, ad esempio non ha una grammatica».
Però per lei e per i padani veneti lo è.
«Quindi è giusto che venga insegnato a scuola, come elemento di identità culturale.
Faccio io una domanda: è meglio imparare l`inglese o il dialetto?».
La riforma scolastica della Moratti metteva l`inglese nelle tre "i" per la didattica.
Non certo il lombardo o il veneto.
«L`inglese bisogna saperlo per forza, d'ufficio. Poi i ragazzi devono conoscere la grammatica e la letteratura italiana.
Oltre a questo esistono la storia e la lingua locale che vanno conosciute».
Ma l`obiezione riguarda quale veneto insegnare a scuola. L`idioma veneto ha una infinità di "calate", tanti quanti i campanili della regione. E allora? «Goldoni scriveva le sue opere in una lingua che non era il veneziano. Io, con lei sto parlando in dialetto. Mi capisce?».
Diciamo di sì.
«Vede che non esiste il problema di farsi comprendere?».
Lei trevigiano, che dialetto sta usando in questa intervista?

«Una via di mezzo tra sinistra Piave e destra Piave. Un esempio, nella sinistra Piave il passero si chiama "panegasa", a destra "siga"; l`anatra nel primo caso "raza" pronunciando la zeta con la lingua tra i denti, nel secondo caso "anara"».
Vede, da una parte dicono una cosa e dall`altra non sanno cosa sia.
«Perché durante la Serenissimma il Piave aveva tratte d`acqua, cioé la distanza da argine a argine, anche di un chilometro e mezzo, se non di più. Quindi c`é stato uno sviluppo diverso degli idiomi anche solo da una parte all`altra di un fiume. Non c`é nulla di scandaloso se nelle scuole di Treviso si insegnasse il trevigiano, in quelle di Belluno il bellunese...».
Tornando alla domanda chiave: con queste evidenti differenze, quale veneto va insegnato a scuola?

«Quello dei territori. Il problema non è più apprendere una parlata che comunque i ragazzi imparano andando al bar a bere uno spritz. Ma quello di acquisire il modo in cui si parla nella zona dove uno abita. Conosco tanti figli di immigrati che parlano veneto in modo superlativo. Non sarebbe male che a questo aggiungessero l`apprendimento dell`idioma locale».

Figli di immigrati che parlano con i coetanei nostrani in dialetto?

«Sembra impossibile ma è così. Ci sono immigrati che in casa usano l`italiano e poi scoprono che i figli parlano dialetto».
Lei ha proposto fiction in dialetto. Ma nel caso di un telegiornale, viste le sfumature dialettali, quale lingua userebbe?

«Sfido chiunque a dire che il veneziano è incomprensibile. A un giornalista straniero ho spiegato che la parola "ciao", la usano anche gli americani, deriva da "s`ciao vostro", servo vostro. Suvvia, se non abbiamo l`orgoglio di queste cose...».
Un po` di ipervenetismo.
«Non accetto che mille anni di storia della Repubblica Serenissima siano liquidate con tre righe nei libri di storia».
Il maestro Adalberto Manzi, famoso per la trasmissione di fine anni Cinquan-.
ta "Non è mai troppo tardi" durata fino al `68, non sarebbe molto soddisfatto se fosse in vita. La Rai voleva unificare l`Italia anche attraverso la lingua.
«Serviva l`alfabetizzazione. Vede, valorizzare identità e idiomi locali è un`azione centripeta non centrifuga».
Traducendo?

«L`Italia si divide non facendo il federalismo, non valorizzando identità e idiomi locali. Al contrario fare il federalismo e esaltare le identità è un movimento centripeto. La fuga dal centro avviene, invece, quando la cultura locale viene soppressa. La scuola ha il 20% di autonomia didattica e allora E garantisco che in molte già avviene».
Ma i bimbi nigeriani, moldavi...
«Venga a fare un giro con me e le faccio conoscere piccoli che parlano veneto meglio di me, e nei cantieri vedrà che la lingua ufficiale della comunicazione è il veneto. Anche per i senegalesi».

mercoledì 23 settembre 2009

Un socialista, d'altri tempi...


1 ) La cosa peggiore è che De Michelis dice che avrebbero potuto fermare tangentopoli perché in quegli anni controllavano carabinieri e servizi segreti e bastava depenalizzare il finanziamento ai partiti. Non lo potevamo fermare smettendo di farci corrompere, ma lo potevamo fermare cambiando le leggi a nostro favore.
Il berlusconismo, mi sa, esiste da molto prima del 1994.

2) Sul Corriere di oggi, Gianni De Michelis conferma che verrà assunto come consulente da Renato Brunetta.
Gianni De Michelis aveva assunto Brunetta come consulente quando il ministro era lui, e Brunetta un giovane che sgomitava nel Psi. Adesso Brunetta gli rende il favore. Nel frattempo De Michelis è stato condannato in via definitiva a tre anni di galera per corruzione. Ora, per questa consulenza prenderà 40 mila euro lordi l’anno, soldi dei contribuenti. Lui lo definisce «praticamente volontariato». Sono duemila euro netti abbondanti al mese. Molto di più di quello che prende un sacco di gente come stipendio. Per lui è praticamente volontariato.
Liberamente tratto da Piovono rane

La vocazione maggioritaria?


Riportiamo uno stralcio interessante di un pot di Pippo Civati.

E il Grande Pd? Come sempre, è scontro tra Grande Nord e Grande Centro. Resta solo da capire cosa succede al Pd (non solo, quindi, quello che succede nel Pd, per capirci). Perché, mentre noi celebriamo il Congresso più lungo di tutti i tempi, alcuni (i soliti) si smarcano e altri (i soliti/2) aspettano di farlo tra qualche giorno: tira aria di pentapartito più che di bipolarismo e colpisce il silenzio del Pd, la sua incapacità di imporre un disegno alternativo. Pare che si finirà con Casini e Montezemolo e che questo vada tutto sommato bene all'attuale gruppo dirigente, impegnato nell'ormai tradizionale lavoro di "fondazione di fondazioni". La creazione di un grande partito del centrosinistra (la vocazione maggioritaria non è tema comune a tutte le mozioni) passa in secondo piano ed esce dall'agenda politica del nostro Paese: sarebbe forse il caso di parlarne, no?

martedì 22 settembre 2009

La polpetta avvelenata dei Tremonti bond


di Angelo Baglioni 15.09.2009 su Lavoce.info.

La tesi secondo cui le banche dovrebbero ricorrere ai Tremonti bond per avere le risorse sufficienti a finanziare le imprese e allentare così la stretta sul credito è tutta da dimostrare. Attualmente, la stretta creditizia è meno evidente di quanto si pensi, e le banche non sembrano avere bisogno del sostegno pubblico per rafforzare il patrimonio. Perché allora il ministero insiste? Perché finanziarsi al 4 per cento, ad esempio con l'emissione di un Btp a dieci anni, e investire all'8,5 per cento in un Tremonti bond è un buon affare per il Tesoro. Lo è meno per gli azionisti delle banche.

La polemica sui Tremonti bond e sul presunto credit crunch ha ripreso vigore di recente. (1) Da una parte, il ministro dell’Economia accusa le banche che non utilizzano il finanziamento pubblico di andare contro l’interesse generale del paese; la Confindustria, per voce della sua presidente, continua a imputare alle banche di strozzare le imprese e sostiene che Basilea 2, il regolamento sul capitale delle banche entrato in vigore di recente, contribuisce ad aggravare la stretta sull’offerta di credito. Dall’altra, i banchieri non hanno alcuna fretta di ricorrere al sostegno pubblico e sostengono che è la domanda di credito a essere debole, non l’offerta. Chi ha ragione? Per una volta, diamo ragione alle banche, e spieghiamo perché.


OFFERTA E DOMANDA DI CREDITO
Quando si osserva una forte riduzione della dinamica del credito, e il tasso di crescita dei prestiti bancari nell’area euro è passato dall’8,5 per cento di settembre 2008 all’1,5 per cento di giugno 2009 dicono i dati Bce, occorre distinguere tra fattori di offerta e di domanda. Naturalmente non è facile, perché quello che si osserva è solo la quantità scambiata, che è il risultato dell’interazione tra domanda e offerta. Tuttavia, esistono indicatori indiretti. Attualmente, questi ci dicono che è la domanda di credito da parte delle imprese a scarseggiare, mentre i vincoli dal lato dell’offerta hanno scarso peso.Una indagine della Bce, Euro Area Bank Lending Survey di luglio 2009, sulla base di un questionario inviato a un campione di circa 120 banche europee, ci dice che la netta maggioranza degli operatori bancari segnala una riduzione della domanda di credito da parte delle imprese, soprattutto a causa del calo degli investimenti. Riconoscono che vi è stato un irrigidimento nei criteri di concessione dei prestiti (credit standards). Tuttavia, il fenomeno è già in fase di attenuazione nel secondo trimestre del 2009 rispetto alla fase più acuta della crisi; inoltre, non è dovuto a scarsità di risorse finanziarie o a vincoli patrimoniali, ma alle incerte prospettive della congiuntura economica e di alcuni settori in particolare. Sempre secondo i risultati dell’indagine, l’accesso ai mercati finanziari è migliorato nei mesi recenti. Un altro dato interessante: la maggior parte delle risposte segnala un impatto pressoché nullo di Basilea 2 sui credit standards. In parole povere: le banche hanno capitale a sufficienza e molti soldi da prestare, ma sono prudenti nel farlo perché il rischio di credito è aumentato, a causa della recessione.


LA SITUAZIONE IN ITALIA
L’abbondanza di liquidità è peraltro ben nota, ed è da ricondurre alla politica monetaria fortemente espansiva attuata dalla Bce, che sta inondando le banche di prestiti a basso costo. In presenza di una domanda di credito debole, l’effetto di questa politica è quello di creare le condizioni per un finanziamento monetario dei debiti pubblici. Quanto alla situazione patrimoniale delle banche italiane, non è brillante, ma non sembra tale da vincolare significativamente la concessione di prestiti: il coefficiente medio del sistema è superiore ai minimi regolamentari (dati Banca d’Italia, fine 2008). Anche nei singoli casi in cui può rendersi necessario un rafforzamento patrimoniale, questo può avvenire ricorrendo al mercato. Il relativo costo, variabile a seconda degli strumenti emessi, difficilmente può superare quello dei Tremonti bond: questi prevedono una cedola annuale compresa tra il 7,5 e l’8,5 per cento per i primi anni, poi crescente gradualmente, mentre il costo di una recente emissione di debito subordinato da parte di una grande banca italiana si collocava poco sopra il 5 per cento. (2)In conclusione, la tesi secondo cui le banche dovrebbero ricorrere ai Tremonti bond per avere le risorse sufficienti a finanziare le imprese e allentare così la stretta sul credito è tutta da dimostrare. (3) In realtà, sulla stretta creditizia si osservano segnali contrastanti, e quelli più recenti sembrano indicare che è la domanda di credito debole, non l’offerta. Inoltre le banche non sembrano avere bisogno del sostegno pubblico per rafforzare il patrimonio. Ma allora perché insistere? Certo, finanziarsi al 4 per cento, ad esempio emettendo un Btp a dieci anni, e investire all’8,5 per cento in un Tremonti bond sembra effettivamente un buon affare: sì, ma per il Tesoro, non per gli azionisti delle banche.

(1) I Tremonti bond sono strumenti ibridi di patrimonializzazione delle banche, sottoscritti dallo Stato. In pratica, sono strumenti di finanziamento a lungo termine, che rientrano nel patrimonio della banca beneficiaria (anche ai fini della vigilanza). Se una banca ne fa richiesta al ministero dell’Economia, si avvia una complessa procedura, che coinvolge anche la Banca d’Italia. Il finanziamento è subordinato all’adozione di alcuni impegni da parte della banca, tra cui: (i) favorire il credito alle imprese, soprattutto piccole e medie, e alle famiglie; (ii) sospendere per un anno la rata del mutuo ai lavoratori in cassa integrazione o percettori di sussidio di disoccupazione; (iii) adottare un codice etico. Il ministero intende monitorare il rispetto di questi impegni.

(2) Si tratta di debito a lunga scadenza, il cui rimborso - in caso di fallimento dell’emittente - è subordinato al rimborso degli altri debiti della banca: depositi, obbligazioni, eccetera. Può essere incluso nel calcolo del patrimonio di vigilanza complessivo della banca emittente.

(3) Così si legge nel comunicato stampa del ministero (25/2/2009), che accompagnava il decreto relativo ai Tremonti bond: “L’obiettivo è accrescere le opportunità di finanziamento all’economia grazie alla maggiore patrimonializzazione delle banche.

lunedì 21 settembre 2009

Voto tedesco, sondaggi politici e "Überhangmandate"


Manca esattamente una settimana alle elezioni federali tedesche del 27 settembre. I sondaggi danno risultati incerti. La coalizione democristiana-liberale, quella preferita dal cancelliere Angela Merkel, oscilla intorno al 48-49% dei voti. Intorno al 47% si trova invece l'eventuale alleanza tra socialdemocratici, Verdi e Die Linke, un'ipotesi per ora respinta dall'Spd di Frank-Walter Steinmeier, che nei confronti della Cdu-Csu continua ad avere un ritardo di circa 10 punti percentuali. I commentatori tedeschi sono incerti sull'esito finale del voto: molti non escludono il remake di una grande coalizione se l'alleanza Cdu-Csu-Fdp non riuscisse a vincere (appunto l'Überhangmandate, n.d.r.). Altri immaginano alleanze innovative, a tre, con i liberali, i verdi e uno dei due grandi partiti. L'incertezza sul risultato delle elezioni è da imputare ad almeno due fattori, oggi difficili da valutare. Prima di tutto, un terzo dell'elettorato dice di non avere ancora deciso se votare o per chi votare. In secondo luogo, la legge elettorale prevede una distribuzione dei seggi che potrebbe favorire uno dei due partiti popolari.

Beda Romano su Agora' per il Sole 24ore

Anche a me piacerebbe che si potesse tornare indietro


Ascoltando alcuni interventi del dibattito congressuale (a proposito, qui i risultati in tempo reale), mi sono convinto: anche a me piacerebbe che si potesse tornare indietro. Che si riscoprissero gli anni belli della precedente generazione. Che tornassero le sezioni del Pci. Che si ritrovasse la politica di una volta, il comizio, il tatzebao, le grandi battaglie collettive. Che si provassero gli anni della Meglio gioventù (ben prima che Caterina si trasferisse in città, insomma). Che tutto tornasse, per dirla tutta, a quando ci capivamo qualcosa (o, forse, meglio, a quando ci sembrava di capirci qualcosa). Che non ci fosse stato B, il craxismo, la Lega e tante altre amenità. Solo che, vi segnalo, care compagne, cari compagni, che non è possibile. E proprio questo è il problema. Perché, oltre alle responsabilità storiche e politiche di una generazione che non è stata capace di fronteggiare tutto questo (era difficile, ma non ci sono molto riusciti), c'è un dato ineliminabile e ineludibile: che il tempo passa e il mondo cambia. Piuttosto velocemente. C'è però una speranza: anche negli Usa, "prima", c'era Bush. E adesso c'è il suo esatto contrario (nelle intenzioni, certamente, ma anche nelle modalità e nei contenuti che finora si sono visti). Ecco: non è necessario tornare indietro, per cambiare. Anzi. Cerchiamo di non dimenticarlo.
P.S. Il post non é nostro, ma é come se lo fosse.

domenica 20 settembre 2009

Una guerra fatta di errori




Alberto Rossini ci invia la segnalazione di un bellissimo articolo (gia' di qualche settimana fa).
Crediamo valga la pena riportare anche la breve, ma intensa, introduzione di Alberto.




Rossano, oggi è il giorno del cordoglio e del lutto. Ma non basta, abbiamo il dovere di capire cosa accade laggiù, in una terra che è ancora lontanissima come il secolo scorso e forse ancor di più. Poco vediamo, nonostante i mezzi a disposizione e poco sappiamo.
Mi sembra perciò straordinario questo articolo di Barbara Spinelli. Vero giornalismo, documentato e duro come un pugno.
Scritto dopo un tragico attentato a Baghdad, analizza le questioni dell’Iraq e dell’Afghanistan che inevitabilmente si intrecciano.
Vale lo sforzo di leggerlo per intero.
Alberto Rossini

Una guerra fatta di errori
20 agosto 2009, di Barbara Spinelli

Vale in particolare per le guerre, e più che mai per le guerre che non riescono a finire e periclitano, la regola semplice secondo cui l’errore è maestro, e il lavorio della memoria un giudice severo. Così per il conflitto in Afghanistan, che il governo Usa ha iniziato dopo l’11 settembre, che ha visto un’ampia coalizione di Stati solidarizzare con Washington contro Al Qaeda, e che tuttavia sta andando in avaria. Così per l’Iraq, dove il conflitto continua a produrre morte e la sua fine è un inganno. Nate per portare democrazia e luce, le nuove guerre antiterrorismo hanno generato notte, nebbia, e quel mostro che promettevano di combattere: lo stato fallito, il failed state di cui il terrorismo si ciba. Questo ci dicono gli autori dell’attentato di ieri a Baghdad: le vostre guerre sono morti che camminano. L’11 settembre è l’eterno vostro presente, nell’Iraq che avete abbandonato e anche in Afghanistan dove vi credete ancora forti perché domani si vota sotto la vostra protezione. Nelle guerre accade che sia il nemico a dirci la stoffa di cui è fatto il principale nostro errore, e alla vigilia del voto afghano Baghdad ineluttabilmente diventa specchio di Kabul. Il conflitto ha dato agli afghani una costituzione che mette fine al predominio assoluto dei sunniti sugli sciiti, ha emancipato le donne e gli uomini dalla sfrenatezza ideologico-religiosa dei talebani, ma non ha creato uno Stato autorevole, imparziale, in grado di monopolizzare la violenza legale. Per sopravvivere, Karzai ha accettato il dilagare della corruzione e si è circondato di signori della guerra colpevoli di eccidi e malversazioni: piccoli capetti spesso appoggiati dalle truppe Usa che ne hanno bisogno. Tanti nel suo paese lo considerano una marionetta della Casa Bianca. I bei vestiti etnici che sfoggia sono confezionati da rinomati sarti occidentali. Le elezioni di oggi mostreranno se esiste un’alternativa all’esperimento Karzai, e a uno Stato corrotto che prolunga la guerra. Tra i vizi che hanno guastato l’operazione afghana c’è innanzitutto l’incostanza americana: la fatua volubilità con cui Bush ha ballonzolato, ubriaco, da un teatro di guerra all’altro - in Afghanistan il 7 ottobre 2001, in Iraq il 20 marzo 2003 - senza stabilizzarne alla fine nessuno. Ma di questo spreco di forze e intelligenza sono stati protagonisti anche gli europei, che mai hanno messo in discussione obiettivi e strategie. Siamo ancora molto lontani da una politica comune del continente: da anni i singoli paesi dell’Unione seguono le mosse della Casa Bianca e sono in attesa che qualcosa cambi: non in Afghanistan, ma in America. Abbiamo visto in un precedente articolo quanto deleteria sia questa pigrizia della mente, quanto ipocrita l’impegno militare di Stati europei che si schierano con zelo ma si guardano dall’equipaggiare adeguatamente i propri soldati. Tanto più scandaloso è il silenzio che copre gli errori commessi in quasi otto anni di battaglia: un silenzio indolente, di cui son responsabili i dirigenti Usa, che questa guerra l’hanno voluta e diretta, ma che rende del tutto vacua anche la presenza europea. Che contribuisce all’insabbiarsi dei combattimenti ma paralizza la politica nell’intera zona asiatica, divenuta cruciale per il mondo come cruciali furono i Balcani quando precipitarono gli imperi austro-ungarico e ottomano. Vediamo dunque di ripercorrere alcuni errori più vistosi, che gli esperti hanno più volte denunciato lungo gli anni, senza essere in genere ascoltati. Il primo, madornale, è l’ossessivo parlare di guerra al fondamentalismo islamico, che inevitabilmente rimanda all’idea di una civiltà moderna cui tocca difendersi da un Islam retrivo e tradizionalista. In una lettera al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri Frattini ripete questo luogo comune: «Il motivo per il quale siamo impegnati in quel Paese \ è fondamentalmente uno: difendere la nostra sicurezza nazionale e la sicurezza dell’Occidente di fronte alla minaccia del terrorismo globale. \ Una minaccia “esistenziale” \ L’Afghanistan è stato e resta il principale incubatore della rete terroristica che fa capo ad Al Qaeda».
La realtà raccontata da esperti e storici come Barnett Rubin o Ahmed Rashid è completamente diversa, e narra di una strana guerra in trompe-l’oeil, i cui veri bersagli non sono mai quelli visibili e ufficiali. Il santuario di Al Qaeda è oggi in Pakistan, e proprio questa consapevolezza ha spinto Obama a mutare rotta, a guardare ben oltre Kabul: se si resta in Afghanistan non è per esportare la democrazia o sgominare i talebani, ma per evitare che la talebanizzazione del paese acceleri il crollo del Pakistan: vera potenza chiave perché molto popolosa e armata dell’atomica. Neppure al Pakistan quel che interessa è davvero l’Afghanistan. Se gli serve controllare Kabul, è a causa di un’unica grande ossessione, potente soprattutto tra i militari: l’ossessione dell’India, che da anni minaccia di divenire alleata stabile di Kabul e di stringere in una morsa Islamabad (da un lato tramite il Kashmir musulmano, dall’altro tramite l’Afghanistan). L’Afghanistan ancora non ha riconosciuto il confine col Pakistan (la linea Durant, fissata nel 1893 dai britannici), né è stato spinto a farlo dagli Stati Uniti. Ignorare le ansie del Pakistan significa accettare una sua non recondita tentazione: quella di impedire che lo stemperarsi della guerra occidentale al terrorismo metta fine all’importanza strategica che Islamabad ha per l’Occidente. Non è l’unico errore americano. Non meno esiziale è stata la decisione di rinunciare all’assistenza che l’Iran presieduto da Khatami offrì dopo l’11 settembre 2001. Fu proprio nel periodo più tumultuoso del Presidente riformatore, quando l’ala dura del khomeinismo andava agguerrendosi, che Bush pronunciò il discorso sull’Asse del Male (era il 29 gennaio 2002), includendo Teheran fra i nemici esistenziali delle democrazie. Preoccupata dall’integralismo sunnita dei talebani, Teheran continuò tuttavia a cooperare, fino a quando Bush non tese un insano nuovo agguato: nel maggio 2005 proibì a Karzai di stringere con Teheran un patto di non aggressione, che vietava attacchi militari all’Iran a partire dall’Afghanistan. Poche settimane dopo, il 3 agosto, Ahmadinejad veniva eletto Presidente: l’aiuto di Bush, secondo lo storico Rubin, fu decisivo. Ancora una volta, un mortifero fondamentalismo nazionalista nacque come Golem fabbricato dall’Occidente. Viene infine l’errore dei vocabolari: intrisi di propaganda e smemoratezza storica, ignari dei fatti reali. La propaganda dice che siamo in guerra contro un Islam retrogrado, integralista: tale è il nemico esistenziale, mondialmente ramificato, della civiltà democratica. Anche in questo caso si parla a vanvera, ignorando la durata lunga della storia afghana: che non è la storia di un paese fagocitato per tradizione dall’integralismo. Il fondamentalismo regressivo, contro cui pretendiamo combattere, è frutto della politica di potenza che è stata fatta sulla pelle dei questo paese, nell’800 e poi di nuovo nella seconda metà del ’900. Prima degli Anni ’70 la tradizione afghana era laica, e Kabul era una città musulmana culturalmente aperta, sveglissima. L’ascesa dei talebani, scrive il filosofo sloveno Slavoj Zizek, «non esprime una profonda deriva tradizionalista» ma è stata «la conseguenza del fatto che il paese venne risucchiato dal gorgo della politica internazionale» (Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi 2002). Ultimo errore: l’equivoco della guerra in corso. Equivoco in ragione della sua natura anfibia, per metà bellica per metà umanitaria, per metà scontro armato per metà «missione di ricostruzione». In realtà, questo è un conflitto di tipo nuovo, su cui vale la pena meditare. È un conflitto che estromette ogni figura terza, tipo Croce Rossa, visto che gli occidentali fanno ambedue le cose: la guerra e l’umanitario. «La guerra è presentata quasi come un mezzo per garantire la consegna degli aiuti umanitari», scrive ancora Zizek. Una delle parti in conflitto si assume il ruolo della Croce Rossa, mescolando il soldato che uccide con il ricostruttore di scuole, ed esponendo alla stessa inimicizia insurrezionale militari e civili. È forse il lato più osceno delle guerre odierne. È il motivo per cui la nostra propaganda non è così distante dallo slogan che il partito totalitario affigge sui muri, nel romanzo 1984 di Orwell: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza».

sabato 19 settembre 2009

Il Circolo e il suo dibattito pre-congressuale


Ieri sera, 19 settembre, si e' svolto il dibattito pre-congressuale del circolo di San Giuliano convocato qui.

Antonella Beltrami per la mozione di Bersani-Bonaccini, Giuseppe Chicchi per la mozione Franceschini -Bastico e Roberto Maldini per la mozione Marino-Casadei hanno dato vita a un intenso dibattito. Come sempre, di fronte si sono trovati un uditorio attento che non ha mancato di cogliere l'occasione per animare un confronto e dare vita a una serata di politica aperta e partecipata. Ovviamente non sono mancati spunti polemici e repliche accese: ma questo e' il bello del dibattito pubblico e chi non lo apprezza non solo perde un'occasione di crescita politica, ma poi difficilmente riuscira' a decifrare i segnali che una societa' complessa come la nostra inevitabilmente fara' emergere.

Fair play

Le iniziative congressuali fervono e anche i rapporti fra le tre mozioni e i relativi esponenti non mancano di produrre salutari confronti in campo aperto, con tanto di repliche e contro-repliche.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo un appunto di Tonino Bernabe', coordinatore provinciale della mozione Bersani, in risposta al post di qualche giorno fa (qui il post).

Caro Rossano, per correttezza di informazioni, mi corre l'obbligo di precisare quanto hai scritto riguardo al confronto precongressuale tra mozioni. Come mozione Bersani siamo sempre stati, nel rispetto delle regole, disponibili al confronto sia come promotori degli incontri che come relatori della mozione. Martedì sera, come già sai, abbiamo partecipato ad un incontro tra mozioni voluto dal segretario di Verucchio, aderente tra l'altro alla Bersani e ieri sera un incontro analogo lo abbiamo avuto a Novafeltria, promosso dal coordinatore dei Comuni dell'Alta Valmarecchia, aderente anche lui alla Bersani. Su Rimini, essendo tutt'ora il ruolo del segretario comunale vacante, abbiamo valutato insieme al segretario provinciale del Pd la possibilità di rispondere alle varie richieste di confronto emergenti dai circoli attraverso 3 incontri da sviluppare, uno a Rimini Comune, uno nella zona sud e l’altro nella zona nord della Provincia. In tale occasione, lo scorso venerdì, abbiamo valutato insieme anche la possibilità di realizzare confronti successivamente alle assemblee di circolo. Ora, non sono stati "inderogabili motivi di forza maggiore" a non permettere a noi della mozione Bersani di partecipare agli incontri sul riminese, ma il fatto che le ipotesi avanzate da Maldini non hanno trovato seguito; come testimonia tra l'altro la mia mail di risposta a Roberto, inviata lunedì scorso oltre che a lui per conoscenza anche ai coordinatori della mozione Franceschini e al segretario provinciale. A tale mail purtroppo non è seguita nessuna risposta. Tra l'altro, come tu ben sai, alla richiesta di partecipare ad un incontro curato dal circolo di San Giuliano abbiamo subito favorevolmente accettato, avanzandoti solo la possibilità di anticipare alle ore 18 l'incontro previsto per oggi, poiché alle 21 mi ero già impegnato con S.Salvatore a partecipare alla loro assemblea di circolo. Anche se purtroppo non riuscirò ad esserci io personalmente, la mozione sarà comunque ben rappresentata nel confronto democratico che riuscirete a svolgere. Come mozione Bersani infatti ci teniamo a portare il nostro contributo, perché viviamo questo congresso come opportunità per crescere; non ci sottrarremo mai a nessun tipo di confronto, “lasciando la nostra sedia vuota”… Augurandovi dunque un buon lavoro e certi che presto avremo nuove occasioni di confronto, invio a te e agli amici di San Giuliano un caro saluto.

Tonino Bernabè
Approfitteremo di nuovo molto volentieri della disponibilità dimostrata da esponenti di primo piano del PD riminese, come in questo caso Tonino Bernabe' (come per altro gia' avveine con altri esponenti), qualora volessero, in futuro, continuare ad approfittare a loro volta dello spazio messo a disposizione da questo blog.

venerdì 18 settembre 2009

Citazione di fronte al pericolo: "La presa di Macallè" di Andrea Camilleri


La mente è tornata a questo romanzo poche ore fa, dopo le notizie dall'Afghanistan. Che poderoso libro, che cupa eppure risplendente fotografia della condizione attuale. Odiato e incompreso dai fans più conservatori del Camilleri montalbanesco, La presa di Macallè (2003) è una delle opere migliori dello scrittore di Porto Empedocle. Il brano che riportiamo (dal capitolo 3) dice tutto quel che c'è da dire, non una parola necessaria di meno, non una parola inutile in più. Buona lettura.


Un lunedì matina 'a mamà disse a Michilino che per tutta la simana non sarebbe andato alle lezioni. Era venuto l'ordini che i balilla e le piccole italiane dovivano apprisintarsi, ogni jorno alle quattro di doppopranzo e fino al sabato fascista che viniva, al campo sportivo indovi Altiero Scarpin avrebbe detto quello che dovivano fari.
[…] In mezzu al campo sportivo era stato costruito in ligno una specie di castello che parse a Michilino priciso 'ntifico a uno di quei fortini che aviva visto addisignati in un giornaletto e che sirvivano nel Farivest ai soldati del ginirali Custer per arripararsi dei pellirussa Sioux. Però il fortino non aviva pareti, era come 'na 'mpalcatura di travi e tavole. Altiero Scarpin l'ammostrò, gloriannosi.«Quello che vedete» fece «vuole essere la sintesi delle difese apprestate dagli abissini nella città di Macallè da noi espugnata. Noi sabato prossimo, alla presenza dei camerati e dei cittadini che interverranno, rappresenteremo la battaglia per la presa di Macallè. E questa rappresentazione dedicheremo al camerata camicia nera Cucurullo Ubaldo eroicamente caduto proprio in quella battaglia. Sceglierò tra voi dieci balilla che faranno la parte degli abissini e venti balilla che interpreteranno i nostri valorosi combattenti. Tutti gli altri, balilla e piccole italiane, faranno gli effetti sonori. La camerata al mio fianco è la maestra di disegno Colapresto Ersilia che molti di voi conoscono».La maestra Colapresto, impittuta, fece il saluto romano.«La camerata ha con valentia disegnato i costumi che ora vi mostrerà».[...] «Questo» disse la maestra Colapresto «è il costume del ras abissino».Aviva addisegnato a un nìvuro scàvuso coi cazùna larghi alla vita e stritti in funno, a fisarmonica. Supra il petto nudu portava sulamenti una collana di denti di liopardo, accussì chiarì la maestra, e una specie di bolerino curtu e biancu.[...] Quelli con la voce più profunna avrebbero fatto la rumorata delle cannonate:«Bum! Bum! Bum!».Quelli con la voce accussì accussì, avrebbero fatto la rumorata delle raffiche delle mitragliatrici:«Ratatatatà! Ratatatatà!»Quelli del balilla che avivano la voci più acuta avrebbero fatto i colpi di moschetto:«Bang! Bang! Bang!»Le piccole taliane vennero divise in dù gruppi. Il primo gruppo doviva fari lo scruscio delle frecce che volavano nell'aria:«Sguisc! Sguisc! Sguisc!»Il secondo gruppo quello delle zagaglie:«Frrrsss! Frrrsss!»[...] Arrivato il sabato, tutto il paìsi scasò e andò al campo sportivo. I balilla e le piccole taliane che facevano le rumorate erano già in campo. Prima niscero i diciotto balilla combattenti con casco e moschetto. Ci fu un tirribilio d'applausi. Po' niscero i bissini che andarono a pigliari posto nel fortino [...] A vidiri i bissini accussì pittati e parati ci fu nel pubblico un momentu di silenzio, doppo si scatinaro voci che dicivano «a morti!», pirita e risati. Scarpin, supra tri pidane (ne era stata aggiunta un'altra), isò un vrazzo, friscò e cumannò:«Manovra d'avvicinamento!»[...] «Bum! Burumbumbum! Bum!» spararono i balilla di voce profunna.Il ras scinnì, i bissini niscero dal fortino, si allinearono con gli archi e le zagaglie pronti alla difisa.«Mitragliatrici!» friscò e vociò Scarpin mentre i balilla continuavano a strisciari 'n terra.«Ratatatatà! Ratatatatà! Burumbumbum! Tatatà! Bum! Bum!»Il fuoco si era fatto intenso.[...] Scarpin isò un vrazzo, tirò una friscata trimolante. Tutti i balilla attaccanti si misero ginocchio a terra, addritta arrimase solamenti Gnazino Spanò, il balilla prescelto per fari la parte di Balduzzo Cucurullo. La banna attaccò, in sordina, «Tu che a Dio spiegasti l'ali».«Sguisc!»Colpito al cori, a Gnazino Spanò cadì di mano il moschetto.«Muoio! Dono la mia vita a sua maestà il Re Vittorio Emanuele Terzo di Savoja!» Non aviva finuto di dirlo che venne di nuovo colpito. Gnazino si portò la mano sul cori.«Frrrsss!»«Muoio! Dono la mia vita a sua eccellenza Benito Mussolini!»«Sguisc! Frrrsss!»«Muoio! Dono la mia vita alla patria!»E finalimenti cadì longo in terra. Tutti i balilla si susirono addritta, ristarono immobili nel presentatarmi.«Camerata Cucurullo Ubaldo!»chiamò col megafono Scarpin.«Presente!» arrispunnì tutta la gente susinnusi addritta.[..] Arrivarono altri balilla di rinforzo, i dù bissini s'arresero, il balilla Spampinato Benito acchianò supra la torretta, ci chiantò la bannera driccolore. La banna attaccò «Salve o popolo d'eroi» e la rappresentazioni finì in un subisso di battimani.Il patre del caduto Balduzzo Cucurullo (la matre non era voluta venire) venne portato davanti a Scarpin che gli spiò orgogliuso:«Che gliene è parso?»«Una minchiata sullenne» fece asciutto il signor Cucurullo.
Tratto da Carmilla

giovedì 17 settembre 2009

Un minuto di silenzio


Questo blog si associa alle dichiarazioni di cordoglio alle famiglie dei militari uccisi in Afghanistan.

Ce l'abbiamo fatta

Ce l'abbiamo fatta. E' stata dura (vedi post qui sotto).

Venerdì 18 settembre 2009
Sala del Buonarrivo (sede della Provincia di Rimini - corso d'Augusto 231)
ore 21

"TRE MOZIONI... UN PD!"
Il circolo di San Giuliano invita tutti i suoi iscritti e tutte le democratiche e tutti i democratici interessati a una serata di confronto pubblico e arricchimento pre-congressuale.

Saranno presenti i 3 rappresentanti provinciali della mozione Bersani, Franceschini e Marino. Vi attendiamo numerosi, e passate parola!

La sedia vuota


Così diceva Franceschini, segretario nazionale del Pd, il 22 agosto. Non parlava però del confronto tra i candidati alla segreteria nazionale, ma tra gli esponenti del Pd e del Pdl. Nel frattempo, il confronto tra i tre è in sostanza negato da due candidati su tre. Propongo a Ignazio Marino di portarsi due sedie vuote ogni volta che interviene alle Feste democratiche e in tv. Non si sa mai: magari prima del Congresso gli altri due candidati si decideranno a occuparle. E a dare vita al democratico confronto tra tre democratici candidati di un democratico partito.


A Rimini siamo piu' fortunati. Di sedia vuota ne basta una.

Infatti pare ci sia stato un contrordine su quanto in un primo tempo sembrava invece confermato. Ossia un dibattito a 3 (tra i 3 coordinatori provinciali di mozione) in 3 eventi a livello provinciale. Ora, per inderogabili motivi di forza maggiore (s'intende...) il coordinatore della mozione Bersani comunica la sua impossibilita' a partecipare.
Qualche volenteroso circolo (tra cui ovviamente il nostro) sta tentando comunque di organizzare i richiestissimi dibattiti pre-congressuali che, come si è visto ieri sera a Verucchio, riscuotono grande successo.

Ancora non è chiaro se le altre due mozioni proseguiranno nell'intento di "dibattiti a due", ma nel caso, come detto sopra, si porteranno una sedia vuota.

mercoledì 16 settembre 2009

Annozero e Report


Torna il sereno sulle redazioni di “Annozero” e di “Report “dopo le accuse di boicottaggio lanciate dai conduttori ai vertici Rai. Le trasmissioni andranno regolarmente in onda, a patto di accettare alcuni piccoli aggiustamenti da parte della dirigenza Ad Annozero, Marco Travaglio potrà fare il suo monologo iniziale, ma doppiato da Carlo Rossella. Vauro potrà tranquillamente disegnare le sue vignette, ma prima di essere mandate in onda verranno vistate da Giorgio Forattini che provvederà a correggerle espungendo eventuali battute divertenti e/o comprensibili. Quanto a Santoro, gli verrà ripristinata l’acconciatura biondiccia con cui cominciò il programma due stagioni orsono. Dovrebbe bastare a destituirlo di ogni credibilità. Se non bastasse, gli verrà imposto di indossare una bandana. Per quanto riguarda il programma della Gabanelli, cui è stata comunque tolta l’assistenta legale, è previsto che venga trasmesso sempre la domenica ma solo in digitale terrestre nelle zone in cui è ancora attivo l’analogico e in analogico nelle zone in cui è attivo il solo digitale terrestre. Se per caso qualcuno riuscisse comunque a captare il segnale, le inchieste verranno rese non intellegibili mandandole in onda col sonoro poco curato, le luci scadenti, e con un pesantissimo accento locale da parte delle voci guida. Soddisfatta la conduttrice: “E’ esattamente il modo in cui facciamo il programma in onda adesso”.

Dal blog di Luca Bottura