martedì 30 giugno 2009

LIBERA SPIAGGIA




Alla c.a. del Vice-sindaco Maurizio Melucci

Egr. Sig Melucci
Con la presente, in qualità di capogruppo PD al Consiglio di circoscrizionale 1 e Consigliere anziano, dopo numerosi tentativi di porre soluzione a specifiche problematiche di San Giuliano mare, sono nuovamente a richiedere interventi riguardanti:

1) il ripristino della spiaggia libera nelle sue dimensioni originali, oggi compromesse dalla erosione, in quanto ritengo inadeguate le attuali dimensioni, vista la grande affluenza di riminesi e non che la frequentano quotidianamente. Ulteriore impedimento alla sua fruizione deriva dalla presenza di vaste porzioni di ghiaia e detriti che rendono difficoltoso l’accesso al mare.

2) Imporre ai concessionari il corretto utilizzo della sbarra che dovrebbe impedire l’accesso di autoveicoli in spiaggia, in realtà continuamente violato, poiché la medesima rimane aperta giorno e notte, pregiudicando la sicurezza dei cittadini.

Ritengo assolutamente improcrastinabile porre rimedio alle problematiche sopra esposte.

Cordiali saluti
Paolo Ciavatta
(Capogruppo PD – Consiglio di circoscrizione 1)


Il PD di San Giuliano appoggia appieno l'iniziativa di Paolo Ciavatta, nel caso specifico e nel suo essere esempio di questo: una buona amministrazione sa ascoltare e agire di conseguenza agli input dei cittadini e dei propri amministratori sul territorio sia nelle grandi opere che in quelle più modeste che però sono anche quelle più vicine e che, non meno delle altre, aiutano il miglioramento della qualità della nostra vita.

E sollecita la soluzione del problema.




Visto da qui


Luca Sofri tenta una sintesi su quanto successo a Torino sabato. A noi pare un'analisi sicuramente condivisibile. Il tutto e' facilmente declinabile in chiave riminese (anche alla luce di quanto emerso ieri sera al Circolo, ovviamente per chi c'era).

Da cronista ed eventuale futuro biografo della storia della presa del potere da parte di una nuova classe dirigente (dico sul serio? scherzo?) vi dico che sensazioni ho sui pensieri che animano l’esteso gruppo di persone che è cresciuto in questi anni intorno alla candidatura alle primarie di Ivan Scalfarotto, alla discussione nei Mille, alle riunioni di Piombino e del Lingotto di sabato. Sono molti e lunghi, come vedrete se volete.


1) Bisogna sempre rispondere a richieste le più varie e soprattutto contraddittorie. Un esempio notevolissimo è questo: per anni è stata contestata a questo progetto la superficialità di una pretesa di rinnovamento semplicemente anagrafico. Le cose non stavano così, ma la contestazione era strumentale e bastian contraria. Poi due giorni fa circola sui giornali – a caso, come al solito, e come vedremo – la notizia che questo gruppo vorrebbe candidare Chiamparino, e gli stessi di prima allora criticano il fatto che il ricambio generazionale si risolva in uomo dell’età di Chiamparino.


2) Ma non è degli attacchi capricciosi e interessati che mi interessa: quelli ci saranno sempre e appena il gallo canta la mattina c’è uno che scrive un articolo o una mail per dire “canta, canta: ma dove sono le idee?”. Invece, piuttosto, ci sono molte persone in buona fede che hanno grandissime speranze e aspettative, e un carico di vecchie delusioni e disincanti, ed è con queste persone che si sta lavorando e per cui è stata organizzata la riunione del Lingotto. Ma anche qui, le stesse persone che dicono “non facciamone una questione di leadership” e chiedono idee, contenuti, un progetto convincente, quando poi li vedono, dicono: “bel progetto, convincente: ma il candidato?”.


3) e hanno ragione. Perché è anche una questione di leadership. E una delle poche cose che sbaglia Debora Serracchiani nelle sue elaborazioni è l’uso (secondo me sbadato, e utile a una sua scelta) di espressioni come “non abbiamo bisogno di un Messia”. Perché invece un Messìa è una cosa fantastica, e ne avremmo un gran bisogno, e l’ultima volta che ne è venuto uno vero ci ha insegnato un sacco di cose, e se non arrivava lui quelle cose mica le imparavamo e le costruivamo da soli appoggiando San Tommaso. Un leader vero, una persona che guidi un progetto, che ne sia il comunicatore convincente, che ne sia modello, è un dono benedetto per qualunque causa. Ma se vi facessero paura questi allegri paragoni sacri, tornate sulla terra, e pensate a chi avesse detto a Martin Luther King, a Gorbaciov, a Gandhi, a Barack Obama “non abbiamo bisogno di un Messia” e li avesse convinti ad appoggiare Franceschini o Bersani, in nome di un percorso di concretezza che attraverso successivi compromessi e pragmatismi avesse permesso di ottenere dei bus solo per i neri ma più comodi, o un sistema sovietico più aperto, alla cinese, o un protettorato inglese sull’India, o una presidenza Hillary Clinton ma con “il primo vicepresidente nero degli Stati Uniti”. Certo, un Messia bisogna averlo: o almeno qualcosa che gli somigli rispetto alle necessità. Ma se non c’è, stiamo solo parlando di un candidato che sostenga un progetto, e l’espressione sul Messia è ancora più insensata e retorica. Abbiamo bisogno di uno/una con cui cambiare le cose.


4) c’è una differenza di visione tra me e Debora Serracchiani su una cosa. Lei pensa che l’obiettivo sia cambiare il PD, subito, e sta cercando il mezzo. Io penso che l’obiettivo sia cambiare l’Italia, col tempo, e che il Pd debba esserne un mezzo. Lei è concreta e io scemo, direte voi, e capisco la posizione: capisco anche quella di Debora in effetti. Ma sarà che sto invecchiando – anche se i lettori del presente blog conoscono da tempo questa mia inclinazione – io penso lucidamente che “turarsi il naso” o comunque ogni sacrificio delle proprie intenzioni per scongiurare mali peggiori si siano dimostrate strategie perdenti. Ripeto: perdenti. Non penso siano sbagliate moralmente, e che non si debba scendere a compromessi: tutt’altro. Ma che ormai decenni di esperienza della politica di questo paese abbiano dimostrato che scegliere il male minore ha aiutato il consolidamento di mali sempre maggiori. Cornuti e mazziati. Avessimo cominciato prima a fare le riflessioni che stiamo facendo ora sulla necessità di cambiare radicalmente marcia, uomini e metodi, non staremmo dove siamo. E mi fermo prima di rinfacciarlo personalmente a chi è stato complice di questo tipo di scelte. Insomma, credo che si debba fare un progetto, e stick to it, come dicono gli americani. E che la scelta del percorso debba essere coerente col progetto più ancora che il raggiungimento dell’obiettivo. La scelta del percorso è il progetto.


5) a questo punto uno immagina che io stia introducendo il suggerimento di far partorire al gruppo dei piombini un loro candidato. E siamo alla questione di queste ultime ore, quella di una sorta di “delusione” da mancato annuncio al Lingotto. Questione complicata dai report giornalistici di quella giornata che sono stati in alcuni casi superficiali e in contraddizione con le sensazioni di chi c’era (i giornali vogliono il sangue, la notizia, il titolo: altrimenti si risentono e vi dicono che siete pavidi). Vi basti sapere che i due interventi piombini più applauditi – quelli di Pippo Civati e Oleg Curci – sono avvenuti nella prima ora di lavori e molti dei giornalisti che ne avrebbero scritto ancora dovevano arrivare (altri sono stati solerti e attenti, ma li leggono in meno). A quel punto lì, per chi era venuto, ne era già valsa la pena. E vi basti sapere che, salvo alcuni applausi scettici sulle cose condivise, i due interventi dei candidati maggiori sono suonati debolissimi e inadeguati, e questa è un’ulteriore ragione a conforto dell’aver chiesto loro di intervenire. E diciamo anche che l’idea che gli organizzatori del Lingotto, dopo averlo negato per settimane ai giornalisti e a chiunque, e aver sostenuto di avere altre priorità, a sorpresa chiudessero la giornata con un plateale e unilaterale annuncio di candidatura estratta dal cappello era piuttosto impensabile, no? Se e quando avranno un candidato o un’idea di candidato, lo diranno e ne discuteranno, coerentemente, senza fare i buffoni.


6) come ho detto, io sono convinto che la questione della leadership sia centrale – e appena diminuita dalla povertà dell’offerta attuale – e ne parlo volentieri. Basta che ne convengano tutti, e non si stia i giorni dispari a dire “non personalizziamo, non è questo che conta, l’importante è il metodo, conta la politica” e i pari a chiedere ansiosamente “ma chi candidate? quanto ce l’avete lungo?”, eccetera. E allora le chances sul piatto al momento sono le seguenti, e prendete l’analisi come completamente ed esclusivamente mia.


7) Ci sono due candidati forti. Uno, Bersani, è distante dalle intenzioni politiche e di metodo dei piombini e del loro mondo di italiani spazientiti, in quasi tutto quello che dice, nel gruppo e nella storia che rappresenta, e nella sua esibita percezione del mondo. E tra questo mondo di persone che erano al Lingotto o ne hanno seguito le discussioni, chi lo tiene in considerazione è quindi una mosca bianca ascoltata con curiosità e meraviglia dagli altri. Massima stima e niente di personale, ma un altro mondo.


8) L’altro dice alcune cose più simili a quelle dette dagli altri intervenuti sabato. Ma solo alcune, e solo da poco, e con un altro linguaggio. L’impressione è che con tutta la buona volontà, anche Franceschini sia un altro mondo. Io credo sinceramente che sia andato via da Torino certo di avere fatto un intervento convincente e di grandi aperture: è una questione di gap di comunicazione e mondi. In più, malgrado una diffusa voglia di credergli (”fosse vero!”), le persone non ce la fanno: le ho viste, le ho sentite. Quando ha detto che vuole rinnovare la squadra, metterci dentro giovani amministratori, forze nuove, sottrarsi al gioco delle correnti, era forse la cosa più ovvia e condivisa dalla sala. Eppure l’applauso è stato esitante, trattenuto: come a dire “bravo, bell’idea, ma ne riparliamo quando l’ho vista”. Facciamo però uno sforzo, e diamole credibilità, come è giusto provare a fare: dove porterebbe, nel migliore dei casi? Io non riesco a figurarmela, un’emancipazione di una leadership Franceschini dal fronte retrogrado e postdemocristiano di cui sarebbe in parte espressione, per esempio. E non mi immagino lui e il suo modo di vivere la politica (quello di quasi tutto il PD attuale) che si fida di altre idee e altre storie che non siano le sue e quelle dei suoi. E aggiungo che lo vedo anche molto in difficoltà: appoggiarlo scendendo a patti con se stessi e prendendo i rischi del bluff potrebbe anche non portare a nessun risultato apprezzabile.


9) Sulla terza candidatura circolano tre scenari personali, con diversa plausibilità, al momento. Comincio da quello che aiuta anche a spiegare il senso degli altri. Il gruppo del Lingotto e quelli che li ascoltano hanno ai miei occhi al momento un solo nome spendibile con qualche efficacia in una candidatura propria, ed è quello di Pippo Civati. Esce dal consenso che ha saputo creare nella sua regione, con le cose che fa e dice, con il suo blog su internet, e con lo spazio che gli danno i giornali, avendone intuito le capacità e il seguito. Quindi giudico una candidatura piombina come se fosse quella di Civati, ché altre tatticamente plausibili non ce ne sono, pur essendoci diversi bravi altrettanto (escludo Serracchiani da queste valutazioni, che la sua candidatura mi pare sia esclusa da lei stessa: ci ripensasse, ne parleremo). Civati è bravo, molto apprezzato, e là fuori c’è un mondo desideroso di appoggiare lui o comunque la chance che rappresenterebbe di cambiamento di rotta e metodo. Molti, moltissimi, insistono. E Civati ha anche un buon pezzetto di “radicamento sul territorio” e rapporto col partito, che non ha nessuno degli outsider con cui collabora. Ma se volete il mio giudizio – ed è il giudizio di uno che darebbe a Civati le chiavi di casa – gli ostacoli costruiti a barriera di una simile candidatura, attraverso il funzionamento di circoli, tessere, regolamento e partito, sono molto più alti di quelli che immagini chiunque non ci sia dentro. Se avessi una qualche fiducia che possa essere in gioco tra i tre delle primarie, lo direi qui subito e lo direi a lui. Credetemi. Se qualcosa creerà questa fiducia – un sostegno, una garanzia, un appoggio solido dentro al partito – lo dirò. Oggi, penso che non ne valga la pena, che avventure per cercar la bella morte ne sono state intraprese a sufficienza. Oggi siamo un passo oltre, ed è bene, ed è bene ricordarselo.


10) Dal Lingotto sono uscite altre due chances, assai distanti. Una è che si candidi Ignazio Marino, a furor di popolo. Ma quanto è grande quel popolo? E non bisognerebbe usare un po’ di testa, e non solo di cuore, nel trasformare un grande apprezzamento personale e puntuale in un’affinità politica? Al momento non esiste non solo la candidatura Marino, ma neanche una visibile affinità sulle molte cose di cui si dovrebbe occupare un partito. In più, potrebbero valere per lui le stesse prudenze di cui sopra, e forse maggiori ancora: che forza ha? A me pare un bel rapporto da costruire, non un portabandiera.


11) Poi c’è ’sto benedetto Chiamparino. Che è molto stimato per il suo lavoro da sindaco (e io condivido questa stima). E sa il fatto suo e conosce un partito. Vicinanza politica con i piombini: bassina. Però un’impressione di maggior facilità di comunicazione e comprensione dei due candidati maggiori, e di possibilità di proficua collaborazione. Si candidasse e chiedesse aiuto e complicità, la sua richiesta sarebbe più credibile di quella dei suoi rivali (uno manco l’ha presentata, peraltro). E sicuramente, anche guardandola da fuori, la sua sarebbe una candidatura di maggior spariglio dei giochi che non le altre due. Ma questo basta, ai piombini? E comunque, deve ancora decidere.


12) E allora? E quindi? E ora? Questo chiedevano in molti dopo il Lingotto, e continuano a chiedere. E il fatto è che lo chiedo anch’io. Vorrei una scelta che mi convinca, e non la vedo. E non appoggio e men che mai promuovo scelte che non mi convincono, per le ragioni di cui sopra: stick to it. Ma mi fido di quello che decideranno le persone che hanno lavorato a tutto questo, e che – bisogna riconoscerglielo – hanno guadagnato con pochissime forze e un sacco di lavoro uno spazio e una rappresentatività enormi. Sono stati bravi, finora, lo saranno ancora: io ho pazienza e mi fido.

lunedì 29 giugno 2009

NEDA


domenica 28 giugno 2009

Dal Lingotto

Non perdete gli interventi di nel video qui di seguito dei lavori del 27 giugno al Lingotto. Soprattutto Giuseppe Civati (dal 13'minuto circa) e Oleg (dal 25' circa). Per chi c'era se li ricordera', sia Civati che Oleg sono stati ospitati a febbraio in un'iniziativa del Circolo di San Giuliano. E se li abbiamo invitati un perche' c'era... Ascoltate.

Per gli amanti del genere


Da Wittgenstein, per gli amanti del genere, riportiamo il regolamento congressuale del PD approvato il 26 giugno dalla direzione nazionale.

sabato 27 giugno 2009

Primarie di segreteria: 25 ottobre


«Sarebbe un paradosso - dice Franceschini - rinviarlo ora».

Le assise si terranno dunque domenica 11 ottobre, le primarie il 25 dello stesso mese.

Con che candidati, con che programmi e, soprattutto, con che regole non e' ancora dato sapersi. Ma vi terrermo aggiornati.

Oggi si riuniscono anche i "piombini" al Lingotto di Torino, che seguiamo con molta attenzione...

venerdì 26 giugno 2009

Il Borgo San Giuliano alle urne?


Sul "E foi de Borg" di giugno (appena pubblicato) e' apparso un articolo a firma di Moreno Maresi, che riportiamo per intero, sul tema della presenza delle automobili all'interno del borgo. Siccome si tratta di un tema che gia' era emerso tra alcuni membri del Circolo PD dei San Giuliano, sentiamo di fare nostra l'istanza del referendum tra i borghigiani su cui verte l'articolo qui di seguito.

Referendum… primarie per l’individuazione del candidato; in gergo, tali strumenti propri della politica, vengono definiti esercizio di “democrazia diretta”.
Ebbene, sara’ per il “clima elettorale” delle settimane scorse, ma alla Lella (Coccia) e’ venuta un’idea che credo valga la pena di valutare con molta attenzione.
L’idea in questione e’ relativa ad una sorta di consultazione popolare (limitata al Borgo) per capire se i borghigiani vogliono continuare a vedere “parcheggiate” all’interno del borgo, le “automobili” (ed i motocicli). E’ ovvio che non si discute della possibilita’ di accesso e transito per i veicoli e motocicli, gia’ regolata dopo l’avvento del vigile elettronico, ma della possibilita’ che le auto e le moto stazionino all’interno del borgo (al di la’ della sosta necessaria per il carico\scarico) occupando in modo invasivo (e permanente) gli spazi (pochi) a disposizione.
Rammento che in occasione della mia prima partecipazione (diretta) alla Festa del Borgo, una delle cose che piu’ mi ha colpito e’ stata veder il Borgo svuotato di auto per consentire la preparazione e l’allestimento della festa: ebbene i commenti che ho raccolto non erano diversamente interpretabile “che bello il borgo senza auto!”.
Ora, siccome tale giudizio”sembra” sia da molti condiviso, la Lella ha pensato che chiedere ai borghigiani di esprimere un giudizio, sia il modo migliore per decidere cosa fare.
Quindi Borgo San Giuliano alle urne?
In un certo senso questa potrebbe essere la strada: infatti perche’ si possa decidere se fare qualcosa ed in che modo, occorre capire cosa ne pensa la maggioranza dei suoi abitanti.
Ci sara’ sicuramente chi sara’ d’accordo “senza se e senza ma” ad estromettere le auto dal borgo e chi invece obiettera’ che che per poter fare questo occorrono soluzioni alternative (area di parcheggio destinata ai residenti?); altri ancora (che non mancano mai) sosterranno che con tutti i problemi che affliggono Rimini (e l’Italia) questa e’ l’ultima delle preoccupazioni.
Io penso che la Lella abbia invece posto l’accento su di un problema sentito, la cui soluzione contribuira’ (se ci sara’ una indicazione democratica in tal senso) a rendere ancora piu’ vivibile il borgo, salvaguardandone l’identita’.
Peraltro provate a pensare se all’improvviso la strada/piazzetta davanti al ristorante di Franco (il Lurido), all’enoteca di Francesca (Dinein) e al forno della Pia (Olivieri), sempre piena di auto e moto parcheggiate senza regole, fosse libera… con tavolini, piante e ombrelloni ben posizionati… spazio per pedoni e biciclette… non sarebbe un bel colpo d’occhio? Al limite si potrebbe fare questo anche solo per il periodo estivo… un modo per altro per confermare quella tradizione di ospitalita’ che ha sempre costituito la principale caratteristica della nostra citta’.
Ecco quindi che pensare di interpellare i borghigiani attraverso una consultazione, debba considerarsi una saggia (e condivisibile) “intuizione” della Lella, per affrontare in concreto il problema.

Lippi, Andreotti e i giovani d'oggi


C'è stato qualcosa di desolante nell'esibizione della nazionale di calcio italiana in Sudafrica, qualcosa che andava oltre la squadra stessa, la sua assenza di gioco e di carattere. Era un particolare difficile da cogliere a prima vista, come un riflesso: il riflesso del Paese. Mai come stavolta: questa è l'Italia. Lo dimostrano sei indizi, sufficienti come noto a costituire non una ma due prove.

Primo: la leadership. Lippi. Il problema non è tanto lui, che ha (avuto) incontestabili meriti. È il bis che va aggiunto accanto al suo nome, dopo un trattino. Il problema è il Lippi-bis. È quell'eterno ritorno all'usato presunto sicuro che fa dell'Italia un Paese di zombie con il biglietto a due tratte. Non a volte, ma sempre ritornano. Lo si scrisse all'indomani del reincarico al ct, annusando l'odore di naftalina infernale sprigionato ogni volta che riapparivano Andreotti, Fanfani o Rumor, che Berlusconi succedeva a Prodi o viceversa. Ma anche, per non far della politica l'unico tristo termine di paragone, quando il sabato sera televisivo veniva riaffidato alla Carrà, il Tg1 ad Albino Longhi (anche se ogni sera alle 8 ora vien da augurarselo), il Festival di Sanremo oscillava (e oscilla) tra i poli dell'eterna diarchia Baudo-Bonolis. Fu facile profezia accostare il Lippi bis al Rutelli bis, disposto dai vertici, rigettato dai fatti (e anche lì, che il presente consenta rimpianti non vale come giustificazione). Eppure, mentre con Lippi prepariamo la valigia, sul pd si riallunga l'ombra di D'Alema e per il Festival di Sanremo non si esclude una co-conduzione di Pippo Baudo.

Secondo: la gerontocrazia. Ci sono ragazzini che dalla nascita hanno visto Cannavaro in nazionale. Fino a due anni fa se ne capiva il motivo. Ora, a parte un'ultima partita che gli consenta di battere il record di Maldini (ritiratosi a quarant'anni con le ginocchia sbriciolate), non più. Ma tant'è: meriti acquisiti. Sembra che in Italia la regola di anzianità per l'eleggibilità del capo dello Stato si applichi a qualunque ruolo di responsabilità. Non si spiega altrimenti perché la nomina di un quarantenne a una direzione divenga una notizia, perché scrittori in quella fascia d'età siano considerati "giovani", "promettenti". Tempo addietro venne fondato un movimento che predicava l'abbandono delle cariche dopo i sessant'anni. A parte l'entusiasta adesione di qualche over 60 e un festoso raduno, non se n'è più saputo nulla. I papà dei fondatori li avranno sgridati. Lo spostamento della linea del tramonto ha spostato pure quella dell'alba. Abitiamo in un fuso orario dove si comincia tardi e non si finisce mai, benché l'ora, quella legale, sia scoccata da tempo.

Terzo: l'affidabilità preferita al talento. La nazionale è venuta in Sudafrica con Camoranesi invece di Cassano. Può sembrare irrilevante, se in ogni settore della vita italiana non ci fosse un Cassano sacrificato a un Camoranesi. Emendare la giovanile tracotanza a poco serve. L'estro spaventa, richiede uno sforzo ulteriore di gestione, va incanalato, supportato. Genera picchi: meglio una linea costante. Proprio su queste pagine, pochi mesi fa, pubblicammo l'esito di una ricerca della London School of Economics secondo cui la selezione dei manager nelle imprese italiane avviene prevalentemente in base alle relazioni personali e non al curriculum. E una volta entrati in azienda la loro carriera è determinata dalla fedeltà alla proprietà assai più che dai risultati ottenuti. È quel che Lippi chiama il "gruppo", a cui attribuisce con uno slancio evocativo uno "spirito". Tradotto: gente che fa quel che gli si dice e non crea rogne. Poco importa se al fantacalcio, ai cui valori dovrebbero essere delegate le convocazioni, Cassano è più pregiato di Camoranesi. Ogni volta che in Italia cambia il vertice di una società si sposta un blocco di dirigenti. Più affidabili. Il cavalier Calisto Tanzi aveva un suo bel gruppo, con tanto di spirito. Tutti ragionieri di Collecchio, tutti devoti a lui e all'azienda. Magari non eccelsi nei risultati e un po' trafficoni, ma che importa? Poi si è aperto il buco. La crepa è cominciata all'estero. Dove? Brasile.

Quarto: la mancanza del senso di responsabilità. A caldo Lippi ha avuto un riflesso condizionato: "Non meritavamo di più, ma il progetto va avanti così". Due proposizioni inconciliabili. Se si merita di uscire in un girone con Stati Uniti ed Egitto, se si perde in quel modo con il Brasile il progetto deve ripartire da zero, o quasi. È già qualcosa non aver ceduto al complottismo (difficile far passare per montatura della stampa uno 0 a 3), non aver chiamato in causa la sfortuna o l'eredità della precedente gestione come fanno i ministri dell'economia quando i conti non tornano. E bene che Lippi si sia corretto al risveglio: "Ho capito, si cambia". C'era bisogno di una figuraccia alla Confederations Cup? Viene in mente Veltroni, che perde in quel modo le elezioni poltiche, consegna Roma alla destra e si dimette dopo una sconfitta in Sardegna.

Quinto: l'alibi della storia. Ogni volta che l'Italia scende in campo i telecronisti di tutto il mondo, non solo nostrani, ricordano le quattro coppe del mondo vinte, soprattutto l'ultima, che rende la squadra campione in carica. Ma, come noto, la storia non fa gol. E non abita nel presente. Da Machiavelli a Gianni Letta il passo è, più che lungo, inconcepibile. Abbiamo avuto il Rinascimento, ma nella storia dell'arte contemporanea siamo un paragrafo. Chiamiamo filosofo Rocco Buttiglione. Per timore che siamo non rivalutati postumi come l'immenso Totò, tolleriamo Boldi o De Sica. Quando Roma si blocca nel traffico alle prime gocce di pioggia e si resta fermi a guardare dal finestrino le antiche mura coperte di scritte offensive il tassista prontamente ricorda: "La civiltà l'amo fondata noi". Poi alza il volume di radio Tifo.

Sesto, ma non ultimo: l'etica. C'è una frase tormentone uscita dal raduno azzurro: "Noi non giochiamo bene, non facciamo calcio champagne. Non vogliamo essere la Spagna". Perché? Preferite essere furbi che bravi? Riuscire, non importa come? A guardarsi intorno parrebbe proprio di sì. Il punto è che, alla lunga, il metodo non paga. Che la Spagna a cui si rinfacciava di non aver mai superato un quarto di finale ha vinto l'Europeo e qui è in semifinale, l'Italia no. Domani è un altro giorno e si ricomincia: da Lippi bis e Berlusconi ter. Il ciak lo dà Gianluigi Rondi.

giovedì 25 giugno 2009

MA TI OFFENDI


ll crollo del PD tra i laici



Comparando i dati Itanes 2008 con le rilevazioni dell'Istant Poll per le europee 2009, Termometro Politico ha notato il crollo del PD avvenuto nell'elettorato laico.

Nel 2008 il 43% dell'elettorato che non frequenta mai funzioni religiose aveva votato per i democratici, mentre un anno dopo solo il 27,5 ha votato per il PD, una percentuale inferiore rispetto al PDL. I maggiori beneficiari sono i radicali, che ottengono il 6%, ma anche a Idv, Rifondazione e S&L arrivano numerosi consensi. L'elettorato più religioso ha invece penalizzato il partito di Berlusconi, che ha perso 5 punti rispetto alle politiche, ma al di là dell'incremento comunque contenuto dell'UDC, si nota una tendenza coerente con le dinamiche generali delle europee.

mercoledì 24 giugno 2009

Franceschiniani vs Bersaniani bis


Mai più "liquido"


Molto sollevati e poco soddisfatti.
Sintetizziamo così il risultato di queste elezioni provinciali che hanno visto il successo del nostro candidato Stefano Vitali.
Molto sollevati in quanto un ballottaggio si porta dietro una cospicua gradazione di ansia da incertezza e la vittoria piuttosto netta, che emergeva già dai primi dati, ci ha messo al riparo da brutte sorprese.
Poco soddisfatti visto che il dato politico del PD (in particolare quello di Rimini città) reclama giustizia al cospetto di Dio per una decina di punti percentuali persi rispetto al 2008. E’ vero (e per fortuna che lo è) che anche la PdL non ha, come si dice, sfondato, ma è pur vero che siamo a Rimini, in uno dei templi dei quel modello amministrativo emiliano-romagnolo che è il vessillo più riconoscibile dell’orgoglio del centro sinistra italiano.
Tanto per dare un’idea, dei 12 consiglieri eletti per il PD al Consiglio provinciale (escludo dal computo il Presidente per ovvi motivi), sapete quanti ne sono stati eletti nei collegi di Rimini città? Due…
Gli altri nove sono tutti stati eletti nei collegi dei comuni della Provincia.
Sapete quanti ne ha eletti negli stessi collegi la PdL? Sei…
In prospettiva comunale c’è da aver paura. Tanta paura.
Qualcuno dice che si è tappata la falla, si è bloccata l’emorragia e il risultato riminese rispecchia a tutto tondo in quanto emerso dal quadro nazionale. Questo sta a indicare come i problemi su scala nazionale sono gli stessi riscontrabili a Rimini.
Bene. E adesso?
Quale cura?
Sarà un percorso lungo, ma con lavoro e impegno porteremo avanti il cambiamento del Paese”, dice Franceschini.
E su quanto detto dal segretario c’è ben poco da dissentire. Tutt’altro. C’è tanto da meditare e costruire. A Rimini, comunque, un dato positivo che non è emerso nel quadro nazionale già ce lo abbiamo. Mi riferisco a quanto rimarcato da Stefano Vitali (e giustamente già riportato su questo blog) a proposito di una campagna elettorale sostenuta tra le persone “in carne e ossa”. Si è rivista la volontà di intendere il lavoro politico come contatto diretto, come capacità di spendersi e come volontà di “farsi vedere”. Un partito come il nostro, che non può non essere popolare, che non può non essere fatto di persone in cui la gente si riconosce, deve fondarsi su questo genere di rapporto con il suo territorio.

Il tipo di campagna elettorale scelto da Stefano Vitali, va detto a chiare lettere, è stata faticosissima. Lo sappiamo bene noi del Circolo di San Giuliano che abbiamo fatto del radicamento sul territorio e del rapporto con i cittadini (prima che con gli elettori) la nostra bandiera.
Ma i risultati si sono visti.
Purtroppo non so se si possa dire lo stesso per tanti (troppi) candidati del PD al Consiglio provinciali, le cui campagne elettorali sono state tutt’al più timide (eufemismo), abbandonate quasi completamente al traino garantito da quella del candidato alla Presidenza. Andare nel proprio collegio (che dovrebbe essere anche il proprio quartiere, o il proprio paese…) e agire da punto di riferimento per i propri vicini di casa, far sentire la presenza del partito sul territorio, svolgere un’azione nel quotidiano che sia a suo modo sociale, di servizio, sono pratiche che pagano in credibilità e consenso.
Il percorso e il risultato di Roberto Maldini, il nostro candidato nel nostro collegio (storicamente ostile!) sia al primo turno che al ballottaggio è un esempio.
E il lavoro deve cominciare soprattutto quando in campagna elettorale non ci si è, quando sulla chiave di lettura del cittadino non grava il legittimo sospetto di un certo opportunismo contingente.
Sì, ve lo confermiamo “dal basso” dell’esperienza che abbiamo maturato dalla nascita del PD a tutt’oggi, fare politica in un partito che deve essere popolare, è faticoso, molto più che sperare che un altro caso-Noemi ci offuschi un avversario ormai, forse, a corto di fiato.
Ma è la strada vincente.

La forma partito che questo passaggio storico ci impone di mettere in campo è ben diversa da quella “liquida” invocata da certi notabili del partito nazionale ai tempi della fondazione del PD, è ben diversa dagli atteggiamenti arroganti di chi si sottrae al confronto con i cittadini. Questa campagna elettorale ci ha dimostrato come i contesti “burocratizzati” di discussione incestuosa tra addetti ai lavori sono prima inutili e poi avvilenti (a meno di non considerare eventi con un uditorio numericamente meno folto del tavolo dei relatori “una preziosa occasione di confronto”…).

Il confronto va affrontato sui temi, sugli argomenti, sui nervi scoperti, tra la gente. Allora sì che idee e persone in grado di entrare nei problemi dei cittadini riusciranno fatalmente a dare quella consistenza prima di tutto culturale che è oggi il primo vuoto da colmare nel PD (che è la principale colpa di questo gruppo dirigente). E quel rinnovamento invocato ormai anche dai sassi deve avere negli argomenti di cui sopra, prima ancora che nell’aspetto anagrafico dei suoi protagonisti, la sua stella polare.

martedì 23 giugno 2009

IL FERRO QUAND'E' CALDO



















Con il 53,6% a Vitali, Rimini ricaccia indietro l’onda d’urto del centro-destra.
B. anche nella nostra Provincia ha ricevuto il segnale di rosso.
Càpitano anche poi sorprese: come nel nostro collegio, una delle roccaforti riminesi del centrodestra, in cui Vitali va in vantaggio superando la soglia fatidica del 50% (chissà se la Voce ne darà notizia… ma forse, e comprensibilmente, le sarà venuta un po' di raucedine).

Alla festa, ieri sera in piazza Cavour per la vittoria, Vitali ha detto una cosa essenziale, credo sia stata una delle prime frasi: questa campagna elettorale ha portato il nostro partito e il centro-sinistra molto più a contatto con la gente e con le persone in carne ed ossa.


Incoraggiare e fortificare questo rapporto di vicinanza e di fiducia, a partire ora dal PD, ci darà una doppia vittoria: perchè è quello per cui siamo nati. Chi nei circoli come il nostro ha battuto strada per strada e porta per porta i quartieri e i territori sa bene come possiamo portare a casa questi risultati: è vero, fatichiamo un po’ di più, ma loro senza le tivvù non passano, noi si.
La gente e le persone hanno risposto a quel “darci una mano”, a quel sentirsi coinvolti in prima persona, già invocato dallo stesso Franceschini. E così è stato che anche qui B. e i suoi peones non passano. Ora queste stesse persone che ci hanno rinnovato la loro fiducia andranno ancora più coinvolte. Più delle alleanze di scacchiere contano le persone: quelle che ci mettono la faccia (ad ogni livello) e quelle che ci mettono il voto (qualsiasi sia la loro provenienza).

Anche il quadro nazionale si tinge di tinte meno fosche. Milano purtroppo non ce la fa – ma si ferma un tanto così dal risultato, a Firenze Renzi sfonda – sarà spocchioso e talvolta poco simpatico – ma ha convinto anche i “rossi” che al primo turno gli avevano remato contro, Torino resiste come avamposto della gallia cisalpina in pieno stile-asterix contro le legioni romane, a Bologna e a Bari si supera o si sfiora il 60%.

Troppo presto per parlare di declino del berlusconismo. B. è ancora lì, ma scricchiola. Ci mette del suo, certo, ma la fiducia incondizionata comincia a condizionarsi, sarà per l’estate che arriva e per gli italiani che accendono i loro pinguini domestici. E’ un po’ che ci fumano, effettivamente.

Quindi, in tutto ciò: sbagliato sperare che B. si rovini con le sue mani, importante invece decidersi a battere il ferro quand’è caldo. A Firenze come a Bologna, a Torino come a Rimini e così via.

Come diceva bene Rossini dal nostro blog (ma parafraso rozzamente) potremo sentirci al sicuro dal berlusconismo solo quando avremo un’idea alternativa forte e chiaramente identificabile - al nostro interno e al nostro esterno - di ciò che siamo (forma-partito) e di ciò che vogliamo (temi-scelte). Zingaretti parla di una fiducia che oggi può riaccendendersi grazie a una miriade di realtà come la nostra, di eccellenze sul territorio, ancora scarsamente incidenti perché frammentate e municipalizzate, ma destinate a rappresentare la risposta più viva al bisogno di speranza e di cambiamento.

Inizia l’estate è vero, ma quantomeno tra un bagno e l’altro, dobbiamo trovare tempi e luoghi per riprendere il cammino iniziato, di cui il PD deve essere forza trainante e ispiratrice.
Dobbiamo battere il ferro finchè è caldo.
Magari lo faremo all’aperto, per sfuggire all’afa delle stanze chiuse, sedie comode e ghiaccio per tutti per refrigerarsi: ma dobbiamo battere il ferro finchè è caldo.
Slacciatevi pure le cinture, gonfiate i canotti o i muscoletti durante la prova-costume, cominciate pure a mettervi comodi, ma iniziate anche a spremervi le meningi.
Idee e capacità d’azione non ci mancano.


lunedì 22 giugno 2009

Franceschiniani vs Bersaniani



Non si riesce neanche a scriverlo, dalla quantità di sc e di enne e di acca. Del resto già si sa, l’importante è complicare. Meglio, complicare semplificando al massimo: l’un contro l’altro armato, in barba alla domanda di cambiamento che va girando da mesi. Stiamo semplificando anche qui, ovvio. Ma – visto che parlare di scenari è d’obbligo (lo dicevamo qui) – è lecito pensare che al momento sia questo quello che si aprirà al prossimo attesissimo congresso democratico, evento dell’autunno/inverno 2009, collezione “nuovo leader”. Si leggono i nomi dei padrini che sostengono i due sfidanti. Veltroni: di qua. D’Alema: di là. Letta: di qua. Ah no, di là anche lui. Spunta il nome di una giovane stylist (tale Debora, la prima differenza è che non ha l’acca), schiacciata tra le grandi firme. Si sente dire che ci sarà una sfilata al Lingotto, molto presto, da cui ci si aspetta grandi cose. L’impressione è però che il trend sia quello di sempre. E dire che un anno fa si doveva cambiare il mondo. E invece il mondo… (Per completare la frase, rivedere C’eravamo tanto amati, foto sopra. Sopra sopra, dove Gassman, Manfredi e Satta Flores brindano a un’Italia che non ci sarà mai).


Mattia Carzaniga

domenica 21 giugno 2009

In morte di Ralf Dahrendorf



Il 18 giugno, giovedi' scorso, è morto Ralf Gustav Dahrendorf. Aveva appena compiuto ottant’anni. In realtà è morto all’età che lui ha sempre sentito di avere, 28 anni. Lo ha scritto nella sua autobiografia, “Oltre le frontiere”, uscita nel 2004 per Laterza, il suo editore italiano. Ventotto anni, come diceva Ingeborg Bachmann, la sua scrittrice preferita, è quell’età di passaggio in cui un uomo finisce di vivere alla giornata e si rende conto che delle mille e una possibilità che la vita sicuramente gli avrebbe offerto, “forse mille sono già sfumate e perdute”. Era il 1957 quando l’uomo che sarà definito filosofo, sociologo, giornalista, storico, economista, o – definizione sua mutuata da Goethe – figlio del mondo, era all’inizio di una promettente carriera accademica, aveva il passaporto già pieno di visti e giocava a poker perdendo regolarmente con gente come Milton Friedman e George Stigler.
Da allora il suo curriculum accademico, scientifico e politico è stato impressionante: professore di sociologia ad Amburgo, Tubinga e Costanza. Membro del parlamento tedesco per il Freie Demokratische Partei, i liberali tedeschi, funzionario al ministero degli Esteri, membro ipercritico della Commissione europea, direttore della London School of Economics, nominato Lord da Elisabetta Seconda. L’ultimo lavoro, docente di Teoria politica e sociale presso il Wissenschaftzentrum für Sozialforschung di Berlino.
Ma essere un ventottenne in quell’accezione che Dahrendorf si porterà dietro per il resto della sua vita significa concentrarsi su quell’unica possibilità rimasta verso la quale indirizzare la propria vita. Nel suo caso lavorare su un’ossessione, la democrazia. La democrazia vista da un liberale, quella delle pari opportunità di partenza, non di arrivo. La democrazia lucida della gestione dei poteri. Il potere, l’altra ossessione di Dahrendorf. Come regolare, trattenere e domare il Leviatano attraverso la partecipazione dei cittadini informati ed educati civicamente. Come prevedere i conflitti tra le classi e i poteri senza abdicare alla scorciatoia del totalitarismo o del regime. Come consentire una riforma del capitalismo pur sapendo della sua tendenza onnivora.
Studiava il potere con lucidità e nello stesso tempo aveva una speranza da antico umanista negli strumenti della politica e delle scienze sociali. Si diceva erasmiano, credeva nella più lucida delle follie, che gli uomini potessero essere migliori. Aveva detto in un’intervista: “Credo molto al common sense, alla capacità di fondo di ogni singolo uomo di formulare giudizi su questioni politiche importanti. Ma in un mondo complicato, questa capacità esige, ad esempio, che si sia in grado di leggere un giornale, e che lo si legga realmente; esige che si sia in grado di ascoltare e comprendere notiziari, e qui è ancora una volta necessario un certo grado di preparazione, di istruzione”. La complessità era il dominio di Dahrendorf, tutto l’opposto della banalità delle soluzioni che la politica propone nei tempi della crisi e della sterilizzazione della partecipazione.
Nelle ultime pagine della sua biografia racconta di quando lui e un amico andarono da un astrologo che esercitava in un’arcata sotto la ferrovia di Amburgo. All’amico l’astrologo disse che avrebbe passato dei guai a causa di una donna bruna. L’amico lasciò la bellissima moglie dai capelli scuri. Quello che disse a lui, Dahrendorf non lo ricorda. Una cosa vaga, una cosa che aveva a che fare con la mediazione, il mestiere di fare incontrare posizioni inconciliabili. Aveva ventun anni. Quella profezia non gli diceva nulla. A ventotto probabimente l’aveva scordata. Mezzo secolo dopo Dahrendorf riuscì a interpretarla. Era un uomo di confine, stava tra le frontiere. Geografiche e politiche. Tra democrazia e potere. Tra le mille e una possibilità e l’unica rimasta. Come un ventottenne.

sabato 20 giugno 2009

Per la nostra strada


Al Lingotto saremo tantissimi. Questa, ormai, è una certezza. Ricordo a tutti che l'ingresso è libero (in tutti i sensi) e che chi non si fosse ancora 'prenotato' può farlo scrivendo a piombinidemocratici@gmail.com. Il Pd sarà l'ospite d'onore della giornata e sarà accolto da tutti quelli che ancora credono in un progetto messo a dura prova nei suoi primi due anni di vita. Alla mattina parleremo di congresso e di partito, al pomeriggio della proposta politica e programmatica che vogliamo avanzare. Quanto alle vicende dei nomi che tanto solleticano l'interesse dei colleghi e del sistema dell'informazione (sia i primi, sia il secondo stanno offrendo il peggio di sé), per noi è un fatto secondario (seconDario?). Vogliamo capire chi è in campo, per fare che cosa, con quale idea di partito. E, se mi è concesso, con quale stile e con quali modalità, perché dentro di me penso che sono molto arrabbiato e, con Dante, potrei dire, a proposito della «bella» politica che «mi fu tolta», che soprattutto «il modo ancor m'offende». Questo perenne farsi del male, questa stupidità del darsi contro senza avere quasi nulla da dire, quel far nomi di persone perché non si sa che nome dare alle cose. «El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo», scrive Marquez all'inizio di Cent'anni di solitudine. Dobbiamo sapere indicare le cose e dare loro un nome, non preoccuparci esclusivamente delle persone, perché - se posso esprimermi così - "mi sono rotto i cognomi". Noi andremo per la nostra strada, quel sentiero difficile su cui ha viaggiato la nostra carovana, verso quella piazza politica a cui tanti aspirano da troppo tempo. Una politica rinnovata nelle parole, nelle scelte, nel metodo. Una politica fatta di qualità, di trasparenza e, soprattutto, di coraggio. In Italia non c'è. E tutti noi sappiamo quanto ci vorrebbe.
Beppe Civati

Nessuno si senta assolto





Partendo dalle posizioni espresse nel dibattito sull'imminente congresso all' interno al Circolo PD di San Giuliano, riportiamo un botta e risposta apparso su Micromega. Le posizioni di Paolo Flores d'Arcais e Luca Sofri rispecchiano, con le debite distanze, quelle di alcuni di noi.


Il Partito democratico e i notabili nel formaggio - A -
di Paolo Flores d'Arcais

Un avvocato di 38 anni non è un “giovane”. Se poi entra in politica, e raccoglie una mole di preferenze che quasi doppia il risultato del capolista, l’avvocato in questione è già potenzialmente un leader. A 36 anni Zapatero era segretario del Psoe e John Fitzgerald Kennedy a 35 viene eletto senatore (diventerà presidente appena un po’ “meno giovane” della nostro avvocato). Debora Serracchiani, perché di lei si tratta, deve solo decidere di rischiare come leader, o ripiegare – già ora, così “giovane”! - sul tranquillo tran-tran della carriera di notabile. Debora Serracchiani ha deciso, non correrà da leader, non si candiderà alla segreteria del Partito democratico. Sarà uno dei notabili di Franceschini. Per i media continuerà a passare per “giovane”, ma ha già fatto la scelta più vecchia e di sempre, nella partitocrazia di destra, di centro, di sinistra: la cooptazione. David Sassoli, giornalista, di anni ne ha 53, non lo si può far passare per giovane nemmeno con gli argani (bisognerebbe assumere come metro della vita umana quello delle promesse del dott. Scapagnini al suo più illustre paziente, e anche così sarebbe ormai di mezza età), e avendo preso 400 mila voti, uno strabotto, è ipso facto un candidato alla leadership del Pd. Ma anche lui ha preferito un futuro di rassicurante carriera “nel formaggio” della cooptazione di nomenklatura. Prosit. Se questo è il “nuovo” del Pd, resta solo l’’abusato “si stava meglio quando si stava peggio”, ma risalendo assai indietro, ad Occhetto e anche prima. Al possibile rinnovamento del Partito democratico ho personalmente smesso di credere, definitivamente, dopo le prime dichiarazioni/invocazioni di Veltroni sconfitto: “dialogo, dialogo, dialogo, Berlusconi non respinga la nostra preghiera di dialogo!”. Ma altri cittadini democratici (nel senso che, come noi, stanno con la Costituzione repubblicana, senza se e senza ma), assai autorevoli nel mondo della cultura e/o del giornalismo, continuano a ritenere che “extra Pd nulla spes”: se vogliono poter continuare a sostenere l’ipotesi del rinnovamento di tale partito, sarà il caso che riescano a convincere qualcuno di veramente estraneo alla vecchia combriccola dei cooptatori-cooptati-cooptandi (l’intero vecchio gruppo dirigente, insomma), a farsi avanti, perché nessuno crederà a un partito nuovo con segretari “sempre quelli”, e se un nome fuori dai giochi non correrà alle primarie, finiranno per dover dar ragione a girotondini, giustizialisti e altri pericolosi estremisti, perché nel Pd l’emorragia diventerà esodo biblico.

Il Partito democratico e i notabili nel formaggio - B -
di Luca Sofri

Ci sono due errori nelle considerazioni di Paolo Flores d'Arcais. Il primo è strano da parte di un navigato frequentatore dei giornali come lui: ed è il suo fondare un ragionamento sulle chiacchiere delle pagine politiche, che soprattutto in questi tre mesi di pre congresso del PD ospiteranno tutto e il contrario di tutto, dettando la linea loro stesse alla politica.Io invece non credo abbia alcun senso dibattere dell'ipotesi che "Debora Serracchiani sarà uno dei notabili di Franceschini", perché al momento non risulta nulla del genere. E partecipare alla bolla delle speculazioni balneari mi pare complice del peggio della politica italiana, oltre che tempo perso. Solo tre giorni fa pareva che il nuovo leader del PD dovesse essere Nicola Zingaretti, per fare un esempio qualunque. Poi lui si è chiamato fuori, e via a parlare d'altro. Vedrete che tra un mese o due risalterà fuori Zingaretti. L'altro errore non è di metodo, ma di merito. Ed è l'uso strumentale e retorico del termine "cooptazione", buono ormai per lo svilimento di qualunque valorizzazione. Invece la cooptazione è semplicemente il meccanismo attraverso cui funzionano gruppi e istituzioni efficienti, siano privati o pubblici. I ministri della Repubblica, per fare l'esempio più ovvio, lo divengono per cooptazione: e lo sancisce la Costituzione. Lo stesso vale per gli assessori, i giornalisti, i calciatori, gi operai, i manager, e tutti i ruoli non elettivi o concorsuali. Lo stesso Paolo Flores d'Arcais sarà stato di certo cooptato da qualcuno nella storia delle sue appartenenze politiche o delle sue collaborazioni giornalistiche. Il punto sono piuttosto i criteri della cooptazione, e di questo dovremmo più assennatamente parlare: che sono spesso tuttaltro che meritocratici o legati alle competenze e credibilità. Ma i centotrentamila voti raccolti da Debora Serracchiani alle europee difficilmente possono essere trascurati da chi abbia il dovere di investire su forze nuove e credibili nel PD. Se non venisse cooptata lei, sarebbe una spettacolare dimostrazione di cecità nei confronti di un'opportunità e del desiderio degli elettori. Ma fatte queste due rilevanti obiezioni, sulle conclusioni di Flores D'Arcais siamo d'accordo in molti: cambiare il gruppo dirigente del PD, cercare di costruire un'alternativa per le primarie, e magari di costruire un'alternativa anche alla politica di sinistra di questi anni, che si è rivelata assai perdente, e nessuno si senta assolto.

venerdì 19 giugno 2009

Rispondiamo a "La voce"



Rubiamo appena qualche riga di spazio per una nota redazionale.


Quanto e' avvenuto o sta accadendo sulla rutilante piazza riminese, dai risultati delle elezioni (europee e amministrative) al ballottaggio Vitali vs Lombardi, dalle prospettive congressuali (nazionali e riminesi) alle prossime iniziative del nostro intraprendente circolo, ci siamo ripromessi di discuterlo a giochi fatti, cioe' a partire da martedi' prossimo.

Ebbenesì, touchè!, non resistiamo: merita infatti un minimo di riposta solo l'attacco diretto al risultato del voto nel collegio 10 di San Giuliano apparso su La Voce lunedi' scorso. In quello che era poco piu' di un trafiletto, il giornalista voleva sottolineare come nel nostro quartiere, che e' anche accidentalmente lo stesso in cui risiede il candidato del centro sinistra Stefano Vitali, quest'ultimo avrebbe perso inomignosamente.


Le cifre che vengono riportate sbandano opportunisticamente alla ricerca di un dato che abbia del clamoroso.


Per rispondere basta una considerazione: Roberto Maldini, nostro coordinatore, era il candidato per il collegio di San Giuliano, collegio notoriamente ritenuto inespugnabile in quanto storicamente (specie quando associato al resto del centro storico, come alle comunali) saldamente in mano al centro destra (per chi non lo sapesse la circoscrizione del centro di Rimini ha una maggioranza di centro destra).
A ulteriore suffragio di cio' aggiungiamo come la migliore prestazione elettorale del centro destra e' stata ottenuta da Alessandro Ravaglioli proprio nel collegio di San Giuliano.

Il calcolo della Voce è piuttosto curioso: confronta la performance del PD 2009 in rapporto ai votanti del 2004. Bene: accettiamo la sfida - del resto siamo a casa della libertà, dove ognuno fa un po' come gli pare.


Seguendo il calcolo della Voce se nel collegio 10 il PD scende del 20% rispetto al bacino di voti ipotetico del 2004, il PDL (e ovviamente la Voce questo non lo afferma), scende del -17%. Motivo prevalente per entrambe gli schieramenti: una minore affluenza al voto dell'7-8%, la crescita di schede bianche e nulle.
La Voce parla del risultato del PD come un "Massacro". A San Giuliano non siamo per la decrescita felice quindi il magro bottino del PD a livello comunale non ci consola certo, anche guardando l'incremento degli altri partiti di centro-sinistra. Purtuttavia, se il PD subisce un "Massacro", allo stesso modo il PDL del nostro collegio subisce un "Massacro-meno-il-3%".

Adesso però veniamo ai risultati in percentuale calcolati come "di solito" si fa (per esempio vedi sito del ministero dell'interno), tra i risultati del 2004 e quelli del 2009, il PD, nei voti di lista per le provinciali a cui era collegato Roberto Maldini, nel nostro collegio scende del 3,1% (da 33.3% a 30.2%) contro una media di perdita comunale del 5%. Magra consolazione, certo, ma pur sempre una performance quantomeno al disotto della flessione media di consensi nel territorio di Rimini tra il 2004/2009.
A completamento dell'opera ricordiamo che il PDL autoctono nel 2004 registrava un 33,8% dei consensi, oggi incassa un 31,5, cioè:
-2.3%, e dire che hanno il vento in poppa.

Da ultimo, in modo arbitrario, la Voce misura l'appeal di Vitali vs Lombardi contando i votarelli delle due liste di supporto (Alleanza per Vitali, Marco Lombardi Presidente) e non - come si dovrebbe dato che ci sono - i consensi che realmente misurano l'appeal del candidato e cioè il voto al candidato (per la Voce: il voto al candidato è quella crocetta o segnetto che i votanti hanno messo spesso sul nome del candidato Vitali, e meno spesso su quello di Lombardi). Detto ciò solo a San Giuliano Vitali riceve qualcosa come 289 preferenze contro 209 per il vostro candidato Lombardi.

Cara Voce, approssimandosi il 25 Dicembre non scrivere a Babbo Natale, ora sappiamo già che cosa lasciarti sotto l'alberello: una bella calcolatrice.
Ma forse non è questione di calcolatrice.



giovedì 18 giugno 2009

Un segretario per cosa?


Il risultato delle elezioni può essere letto in molti modi, a seconda dei punti di vista e delle convenienze. Una più attenta valutazione andrà fatta tenendo conto dei ballottaggi. Anche da noi sarà necessario approfondire molte questioni. C’è un dato però che impressiona: la sconfitta della sinistra in Europa. La sinistra ha perso In Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna, in Germania. Insomma un po’ dovunque. Barbara Spinelli su La Stampa ribadisce come la sinistra non sia stata capace di fornire una risposta alla crisi e abbia appena balbettato qualche parola, ma niente che avesse a che fare con un progetto e ancor prima con una visione, neppure alternativa, ma almeno differente dalle proposte della destra.
Una destra sempre più governativa, sempre più pragmatica, persino cinica nel sapersi adattare alle diverse situazioni, capace di offrire sicurezza ai cittadini, dopo averli spaventati, di recuperare un modello di welfare statale che aveva deprecato, di farsi persino anti capitalista, sull’esempio di Tremonti.
La sinistra che fa? Sembra finita in un impasse da cui è incapace di uscire. L’unica novità pare emergere dal successo dei verdi tedeschi guidati da Daniel Cohn-Bendit, famoso leader del ’68, ora convinto ambientalista e sostenitore di un modello sociale in qualche modo vicino alla suggestione della decrescita, teorizzata da Serge Latouche.
Al di là delle alleanze politiche e del dibattito che si sta aprendo in vista del prossimo congresso del PD, credo che si possa uscire dalla crisi solo avendo in mente una strategia, una visione complessiva della società differente dall’attuale e quindi non ci si può fermare solo alla tattica.
In questo senso è stucchevole sentire proporre un nome piuttosto che un altro quale futuro segretario del PD. Un segretario per fare che? Senza dare una risposta seria alla domanda siamo destinati a cambiare segretari come Moratti un tempo cambiava allenatori.
Sarebbe peccato mortale proporre una soluzione o addirittura la soluzione. Prima di tutto perché sarebbe un’idea di altri tempi, di quando si pretendeva di spiegare il mondo e quindi anche di cambiarlo. Il problema è che il mondo non riusciamo più ad interpretarlo e la confusione, il caos, che scorgiamo e che non riusciamo a sopportare lo fuggiamo, tentiamo accuratamente di metterlo tra parentesi e facciamo di tutto per dimenticarlo.
Per capirlo il mondo abbiamo bisogno di un racconto, di una narrazione che sia in grado di farcelo capire e cogliere nel suo insieme. Questo facevano i miti, quelli ad esempio della Grecia antica o le grandi cosmologie di provenienza orientale, lo stesso si potrebbe dire delle grandi religioni monoteiste.
Credo che il successo del grande fratello e di tutte le trasmissioni simili, vada spiegato ricorrendo al mito della caverna di Platone. Non riesco a capire cosa succede nel mondo, nel senso che ne ignoro le leggi fondamentali e neppure intuisco poiché accada una cosa come l’attentato alle torri gemelle o perché i “derivati” producano una catastrofe finanziaria senza precedenti. Allora osservo un micro cosmo che non mi coinvolge personalmente e del quale i meccanismi che lo regolano mi sono chiari: primo perché è un format e quindi ha regole precise, poi perché con varie astuzie ogni volta mi viene riepilogato ciò che avviene. Lì posso stare tranquillo. Insomma direbbe Platone non guardo la luce perché mi accecherebbe, guardo le immagini riflesse, per di più artatamente costruite che mi paiono reali, anzi sono la realtà.
Peraltro vorrei notare, senza una punta di catastrofismo, che siamo sempre più immersi in un mondo virtuale: la rete ormai è un dispositivo che pervade la nostra vita sociale e non solo. Ho trovato straordinaria, per provare capire il senso del mondo, la lettura dell’ultimo libro di Mario Perniola, filosofo italiano che possiede un punto di vista originale, come pochi altri (Agamben, Severino, Cacciari, ad esempio).
Perniola probabilmente inorridirebbe del fatto che il suo Miracoli e traumi della comunicazione, pubblicato da Einaudi, venga usato per spiegare la crisi della sinistra, eppure voglio tentare. Il testo, molto denso, pone questa domanda: come si possono spiegare alcuni fatti quali il Maggio francese del ’68, la rivoluzione iraniana del ’79, la caduta del muro di Berlino dell’ 89 e l’attacco alle Torri gemelle di New York? Non si possono spiegare o meglio non siamo stati in grado di comprenderli, poiché li abbiamo percepiti solo come eventi della comunicazione e quindi ci sono apparsi come “miracoli e traumi”, privi di qualsiasi logica. Impossibili eppure reali, proprio come diceva una frase di Battaille, ripresa dal movimento studentesco del ’68.
Nel momento in cui la comunicazione ha avuto il sopravvento rispetto alle grandi ideologie dell’800 e del ‘900, basate prima sull’uomo produttore e poi sull’uomo consumatore, è terminato ogni riferimento alla verità effettuale delle cose. E’ tramontato il riferimento alla storia intesa come insieme di azioni che determinano il cambiamento del mondo. Tutto sembra essere contemporaneamente immutabile e in divenire, come le contrattazioni in borsa che cambiamo secondo dopo secondo senza produrre un mutamento sostanziale. O come avviene con le notizie aggiornate in tempo reale dalla agenzie ma che sembrano, un minuto dopo, sempre le stesse. Viviamo - è questa la tesi di Perniola - in un regime storico di presentismo in cui ogni evento sembra uguale all’altro e in cui è praticamente impossibile attribuire valori e significati diversi alle cose. “Il fatto si dissolve in notizia, l’evento diventa un simulacro al di là del vero e del falso, l’azione si liquefà in comunicazione”.
In questa situazione si comprende meglio il potere mediatico di Berlusconi e di altri capi di governo, l’indifferenza ai fatti, il prevalere di un cinico comportamento per cui i nemici di ieri diventano alleati di oggi, l’ossessione per la propria immagine e il trionfo del gossip. Non vale più neppure il principio di non contraddizione e tutto si può giustificare e permettere alla luce dell’interesse e del risultato finale.
La sinistra, questa è la mia conclusione, non può vincere in un sistema di regole in cui non esiste una visione diversa da affermare, in cui in qualche modo non si produca uno scarto che affermi la prevalenza della verità effettuale delle cose. Come fare rimane il grande problema. Eppure iniziare a ragionare del mondo che vorremmo è già un primo fondamentale passo, altrettanto importante è il modo in cui pensiamo di arrivare alla meta. Ecco perché l’analisi del voto e il modo in cui discuteremo per arrivare al congresso, proponendo strategie politiche e non solo alleanze non sono affatto secondari. Sono non solo forma ma sostanza. Fanno parte della soluzione del problema!


Alberto Rossini

mercoledì 17 giugno 2009

Quale congresso?


Biagio de Giovanni, nel suo A destra tutta (Marsilio)

«Quale funzione nazionale si dà il partito democratico? In quale nuovo tessuto istituzionale intende interpretare la democrazia italiana? Quali alleanze intende promuovere? Come si intende rispondere alla nuova subordinazione del Mezzogiorno che sta nell'anima più forte del centrodestra? Quale difesa attiva dell'unità dello Stato nell'eventuale quadro federale? Quali proposte per il rinnovamento dello Stato sociale? Per dei princìpi contrattuali in vista di un nuovo spirito del lavoro e dell'impresa? Quali proposte sul rapporto fra giustizia e politica, tema determinante per il futuro del paese? E fra sicurezza e libertà? Quale visione sui grandi problemi della vita etico-biologica che sono entrati di prepotenza nell'agenda politica e di cui nel Pd si teme anche solo di parlare? Quale rappresentazione di una irrinunciabile laicità? Quale idea dell'Europa in cui tornano con prepotenza gli stati sovrani, che non ripeta semplicemente i moduli veteroeuropeisti, e che sappia rispondere al problematico ma significativo punto di vista del centrodestra?».

Ecco, il Congresso del Pd si dovrebbe fare così, con qualche domanda e una ricerca aperta e libera, ma anche di sinistra per trovare soluzioni e risposte credibili e di lungo corso. Chissà se qualcuno vorrà adottare questo metodo. E voi che domande fareste al Pd e a voi stessi?


Biagio de Giovanni, " A destra tutta"

martedì 16 giugno 2009

Il fattore personale


“Se è ancora capace di imparare una lezione – e il sorpasso della destra in tutta Europa gliene ha data una – la sinistra dovrà interrogarsi sulla sua sconfitta, sulle cause profonde dell’indifferenza con cui viene abbandonata dai suoi naturali sostenitori: i poveri, i bisognosi, ma anche i sognatori. Non è possibile votare a sinistra se la sinistra ha smesso di esistere. Il paradosso è che alla guida di un paese che per moltissimo tempo è stato imperialista e conservatore oggi c’è Barack Obama. E una politica che cerca a malapena di salvare le ragioni di un capitalismo senza regole e pronto a divorare se stesso ci sembra quasi la realizzazione di un sogno di sinistra. Scommetto che molti progressisti, socialisti, comunisti, si chiedono: ‘E se Obama fosse il leader del mio partito?’. Forse è quella che chiamiamo l’ironia della storia. O forse, semplicemente, è l’importanza del fattore personale”.

José Saramago, editoriale di Internazionale.

lunedì 15 giugno 2009

Nunterregghepiu'



Massimo Gramellini riesce a piacerci, stavolta. Soprattutto in questi giorni di apparentamenti. Urge sempre piu' qualcosa e qualcuno di nuovo. Eppur si muove...

L’altra sera ho visto in tv un calciatore della nazionale, credo fosse Gilardino, intervistato dopo una doppietta ai pur bravi neozelandesi. Mentre gli chiedevano se erea contento di aver segnato una doppietta ai pur bravi neozelandesi, mi sono sorpreso a suggerirgli: «Pietà, non rispondergli come tutti i tuoi colleghi: i gol fanno sempre piacere, ma mi interessa di più essere stato utile alla squadra». Infatti, dopo una breve pausa per raccogliere le idee, il calciatore ha risposto: «I gol fanno sempre piacere, ma mi interessa di più essere stato utile alla squadra». Vorrei tanto segnare una doppietta ai pur bravi neozelandesi. Non per il fatto in sé. Ma per il piacere di poter rispondere: «Non me ne frega niente di essere stato utile alla squadra, cioè un po’ sì, ma senza esagerare. Invece sono felice come una trota perché ho segnato due gol».


Mi auguro che Debora Serracchiani, al pari degli altri quarantenni che si affacciano alla ribalta della politica all’età in cui Blair era già primo ministro, e quindi in Italia vengono chiamati «giovani», analizzi a fondo le interviste dei calciatori. Il linguaggio è il vero simbolo di una casta e si tramanda di generazione in generazione con il suo gergo banale, le sue allusioni oscure, la sua mancanza di sincerità. Obama docet: ogni cambiamento è innanzitutto un cambiamento di linguaggio. Il modello inimitabile resta Giolitti, che a un parlamentare che lo accusava di aver fatto un discorso troppo breve rispose: «Chiedo scusa. Ma io, quando ho finito di dire quel che ho da dire, ho finito anche di parlare».

domenica 14 giugno 2009

Veltroni: "Bisogna rafforzare, non sfasciare. Pronta una nuova classe dirigente"


I leader politici motivatori sono quelli che creano grandi aspettative, che fanno sembrare tutto a portata di mano, che prospettano il raggiungimento di obiettivi ambiziosi e difficili, infondendo speranza e fiducia. Sono quelli che guardano lontano e infatti sono gli unici che, ogni tanto, ci arrivano. I leader politici demotivatori sono quelli il cui primo obiettivo è abbassare le aspettative, disegnare scenari tristi e deprimenti, prospettare tragedie apocalittiche così che le sconfitte sembrino vittorie, e tutto venga lasciato così com’è. Sono quelli che ridimensionano gli obiettivi, per poi non raggiungerli comunque. Ci possono essere due chiavi di lettura per parlare del risultato del Pd a queste europee. La prima di queste chiavi è quella basata sulle aspettative della vigilia, tra previsioni di un Pdl oltre il 40% e di un Pd molto lontano dall’asticella del 27%. Con delle aspettative così tragiche e un obiettivo posizionato sei punti sotto il risultato delle ultime politiche, i risultati reali sono stati percepiti come buoni, soddisfacenti abbastanza da far pensare di averla scampata bella e darsi una pacca sulla spalla. Peccato che non sia così. La seconda e più efficace chiave di lettura, infatti, è quella basata sui numeri. Sul confronto dei dati con quelli delle precedenti elezioni, sul rapporto tra voti espressi e preferenze, sul risultato nelle diverse circoscrizioni. Se ne traggono ben altre conclusioni.

sabato 13 giugno 2009

Un grande lavoro di squadra



Una delle domande più frequenti nella campagna elettorale del PD era questa: “ma come gli è venuto in mente di candidare Luigi Berlinguer capolista nel nordest?”. La domanda non era polemica né retorica: era una domanda vera, che cercava spiegazioni a una scelta di cui non si vedevano ragioni sensate, né sagge né ciniche, né interessate. Qualcuno rispondeva persino che forse era uno stratagemam comunicativo che voleva approfittare di un cognome familiare e amato, tanto erano impercettibili ragioni più chiare. Una versione che si trova in rete, non molto confortante, e' quanto segue.
"Proprio riguardo i capilista, può essere interessante ed emblematico scoprire come si è arrivati al nome di Luigi Berlinguer per il Nord Est, una delle scelte più discusse di queste elezioni europee. A seguito del regolamento del Pd sulle candidature (che proibiva di inserire personaggi ineleggibili nelle liste), tutti i papabili già parlamentari dovettero rinunciare all’idea di correre per un posto in Europa. A una settimana dalla chiusura delle liste il nome del capolista mancava ancora, e la scelta di Franceschini cadde su Claudio Magris. Settant’anni, triestino, scrittore e germanista, già senatore e a un passo del premio Nobel, Magris rifiutò l’invito, a causa di una lettera da lui inviata a Franceschini alla quale non era mai giunta risposta. L’emergenza era sempre più emergenza. Il Friuli propone allora Debora Serracchiani, l’Emilia Romagna si mette in mezzo e rilancia con Salvatore Caronna, il Veneto fa sapere che Caronna non gli è gradito e quindi se ne trovino un altro. Un rebus, mentre il tempo stringe. A ridosso della chiusura delle liste è Pierluigi Bersani a fare la mossa decisiva, telefonare a Luigi Berlinguer e chiedergli di fare da capolista per la circoscrizione Nord Est. Frittata fatta, e il resto lo sapete".

venerdì 12 giugno 2009

Tutti a casa


E adesso parliamo del vero dato importante per chi vota a sinistra e non ha le fette di salame sugli occhi: la catastrofica sconfitta del Pd.
Trovo ridicolo - ma è invece pazzesco - che con una perdita secca di sette punti percentuali in un solo anno, oltre che di decine di province e comuni, Franceschini abbia la faccia tosta di parlare di «una base di partenza per andare avanti». E subito partono le consuete lotte di corridoio, con Fioroni che chiede la riconferma del segretario e Bersani che spintona per prenderne il posto.
Intanto qui non c’è nessuna base di partenza: c’è un partito abbandonato in un anno da un quinto dei suoi elettori, quasi sparito dalla Lombardia e costretto alla difensiva perfino nelle sue riserve indiane.
Base di partenza? Certo, ma è la partenza del corteo funebre.
Alla dirigenza del Pd evidentemente il caso Serracchiani - 144.558 preferenze - non dice nulla. Pensano di aver fatto bella figura candidandola e mandandola a Strasburgo: ora però ragazzina lasciaci lavorare che dobbiamo scannarci tra Franceschini e Bersani.
L’idea di farsi da parte tutti e di lasciare spazio a mille Serracchiani, ai cuori contenti del meno sette per cento non viene neppure in mente.

Da "Piovono rane" di Alessandro Gilioli

giovedì 11 giugno 2009

“E le sta male la frangetta!”


Avremmo voluto commentare l'articolo apparso oggi su Repubblica a proposito dei mal di pancia scatenati nel partito da Debora Serracchiani, ma Luca Sofri ha provveduto come noi avremmo saputo far meglio.

Per il PD sono giorni di grandi costruzioni dietrologiche, sui giornali. Che a loro volta agitano la politica. È impressionante notare come i politici che dovrebbero usare i giornali per far sapere cosa stanno facendo, li usano invece per sapere cosa stanno facendo. In questo ha ragione D’Alema quando dice che quel che si pubblica oggi sarà smentito domani, e così via.
In un articolo di questa categoria letteraria, poi, su Repubblica di oggi, si citano fastidi diffusi per la promozione di Debora Serracchiani. Che i fastidi ci siano è indubbio. Che li si voglia giustificare con altro che non siano invidie, timori interessati, ansie da perdita di senso o esibizioni di anticonformismo, è ridicolo. Di una di cui si diceva che era stata legittimata solo da internet, e che ora è stata votata da centoquarantamila persone, adesso si dice che è stata votata da centoquarantamila persone solo perché legittimata da internet. E soprattutto si usano argomenti totalmente falsi, senza che nessuno obietti.
Tanti dirigenti locali sono infuriati non per il successo di Debora, ma per il “modello Serracchiani”, dove il criterio di selezione della nuova classe dirigente è solo “stare al posto giusto nel momento giusto”, com’è capitato a lei all’assemblea dei circoli del 21 marzo dove pronunciò il suo ottimo discorso rimbalzato sui tanti blog democratici. “E pensare che andò al microfono perché al Friuli toccava scegliere una donna”, racconta Maurizio Migliavacca, l’organizzatore di quell’evento.
Si noti la totale indifferenza della tesi esposta alle parole “ottimo discorso”, e la pretesa che “stare al posto giusto nel momento giusto” sia una cosa irrilevante per la storia del mondo. E qualcuno dovrebbe finalmente raccontare ai celebratori nostrani di Barack Obama la rapidità della sua ascesa politica a partire da un discorso imprevisto e i fattori diversi che portarono a quel discorso e a quella promozione: eravamo nel 2004, quattro anni prima che diventasse Presidente degli Stati Uniti. Obama ebbe un’occasione impensata, la sfruttò, e il partito si accorse di lui.

Obama was little known outside Illinois before the convention. As the Philadelphia Daily News headlined on the morning of his keynote address: “Who the Heck Is This Guy?” Obama admitted in interviews at the time that he was “totally surprised” by the speaking invitation. (Through his spokesman, he declined to be interviewed for this story.) As he put it in his book The Audacity of Hope: “The process by which I was selected as the keynote speaker remains something of a mystery to me.”
Ma torniamo ai critici di Serracchiani.
Una settimana fa, a notte fonda, il segretario provinciale di Prato si sfogava con Gianni Cuperlo: “Mi sento mortificato da questa storia della Serracchiani. Non per lei, per il messaggio che è passato. La promozione casuale, il mito dell’outsider, dell’extra politico. Noi allora che ci stiamo a fare?”. Tanti nuovi dirigenti locali sono professionisti, impiegati che si fanno il giro dei circoli prima di tornare a casa la sera, dopo il lavoro. E se il loro impegno venisse a mancare?
Il segretario provinciale di Prato (e Gianni Cuperlo che ne racconta, se la ricostruzione è fondata) farebbe bene a informarsi sul curriculum tutt’altro che “extra politico” di Debora Serracchiani, eletta due volte in consiglio provinciale, dirigente del suo stesso partito e segretario a Udine, che non dovrebbe contare meno di Prato. Nonchè avvocato in attività, se è rilevante essere “professionisti”. Sul fatto che faccia il giro dei circoli prima di andare a nanna non ho informazioni, ma proprio dai circoli è venuta la sua legittimazione e l’approvazione della sua candidatura.

Ma continuiamo pure a parlare a vànvera.

La gioiosa macchina da guerra




Il problema e' che, messe cosi', una a fianco all'altra, non si sa dire quale sia quella seria e quale la parodia.
Se non fosse drammatico, sarebbe comico...

mercoledì 10 giugno 2009


Parliamo di Brianza, terra ostile si sa' (politicamente parlando). Eppure un dato ci piace sottolinearlo. Potrebbe venir buono.

Il Partito Democratico elegge nove consiglieri in Provincia. Sono, in ordine di elezione, Vittorio Arrigoni (Vimercate), Adriano Poletti (Agrate Brianza), Elio Ghioni (Nova Milanese), Nadio Limonta (Bernareggio), Domenico Guerriero (Monza), Vittorio Pozzati (Mezzago), Paolo Pilotto (Monza), Maria Fiorito (Muggiò), Cecilia Veneziano (Monza). Dove la Lega è meno forte (come anche a Milano), il Pd si afferma. Un dato su cui riflettere.

E dove si fa campagna elettorale militante si recuperano tante posizioni.
E, magari, si viene anche eletti. Già.

Liberamente tratto da un post di Beppe Civati.




martedì 9 giugno 2009

Debora über alles



Scusate il ritardo.

Il blog e' stato inattivo un paio di giorni visto l'impegno profuso durante queste elezioni dai vostri amati.

Siamo al ballottaggio tra Stefano Vitali e Marco Lombardi. E la performance del PD riminese (soprattutto a Rimini citta') non e' stata certo entusiasmante.
Il ballottaggio sara' un confronto da affrontare, di nuovo, senza se e senza ma. E di nuovo il PD di San Giuliano sara' in prima linea per questa decisiva sfida.

Veniamo alle gaudenti note (perche' ce ne sono).

Il voto europeo ha attribuito a Debora Serracchiani un consenso insperato anche dai suoi ultras piu' accesi. Tra questi, ovviamente, noi. Noi e tutti quelli che anche a Rimini l'hanno votata.

E' un risultato straordinario per noi del Circolo di San Giuliano che ci siamo battuti fin dall'inizio per quel rinnovamento di cui Debora e' ora concreta speranza.

E' un risultato doppiamente straordinario visto che, in Emilia Romagna, l'indicazione di voto di preferenza per Debora e' stata, nero-su-bianco, osteggiata a favore "della vecchia foto di famiglia dell'apparato, sempre uguale a se stessa" (i nomi li conoscete).

Un ringraziamento va davvero espresso a tutti quelli che hanno sostenuto il PD in queste elezioni, a tutti quelli che credono nelle persone come Debora Serracchiani e alla concreta speranza di rinnovamento del PD che il suo successo rappresenta.

E ora un po' di narcisismo: ci hanno davvero fatto un immenso piacere gli attestati di stima di tanti elettori che hanno dato fiducia al PD proprio in forza della nostra attivita' di Circolo e, attraverso la quale, hanno anche potuto conoscere di persona Debora Serracchiani.

sabato 6 giugno 2009

«Insieme potremo fare molto»


Abbiamo iniziato il nostro giovane, ma intenso, percorso come Circolo PD di San Giuliano molto prima dell'inizio di questa campagna elettorale, meritando sul campo le simpatie e il seguito che ci hanno resi la realta' di gran lunga piu' vitale nella nostra citta'.
Abbiamo ospitato Debora Serracchiani che, in una infausta (in quanto piovosa...) serata, ha incontrato cittadini entusiasti come da tempo non si vedeva per una campagna elettorale.
Abbiamo lavorato per la candidatura di Roberto Maldini, nostro coordinatore, sicuro protagonista del futuro politico di Rimini nel segno di quel rinnovamento che non c'e' elettore che non ci indichi come prossima indispensabile tappa del PD.
Abbiamo sostenuto attivamente, senza se e senza ma, la campagna per Stefano Vitali alla Presidenza della Provincia di Rimini.
Per tutto questo, facciamo nostro l'intervento ormai comune a tanti giovani (non solo anagraficamente) esponenti del PD, che pubblichiamo qui di seguito, a conclusione della campagna elettorale.

Lo sappiamo, molti elettori sono esasperati, hanno vissuto male questo nuovo partito, lo hanno amato, in alcuni casi, senza essere ricambiati (dal Pd e dalla sua politica). Molti entusiasti della prima ora sono rimasti delusi, molti delusi in partenza sono rimasti entusiasti di essere delusi. Però, facendo questa campagna elettorale, una campagna elettorale difficile soprattutto dalle nostre parti, dove da molto tempo siamo al governo, ci rendiamo conto che da questo Paese sta scomparendo la politica.
Ed è pericoloso e preoccupante.
E tutto si gioca e si 'brucia' in poche battute, sulla sicurezza anche dove sono tutti sicuri, sulla casta anche dove il sindaco guadagna qualche centinaio di euro, sulla polemica e sul gossip, perché non abbiamo parole per descrivere la crisi, per interpretarla, per offrire quelle soluzioni che ci consentirebbero di farvi fronte e di uscirne. La politica non c'è più e, invece, sarebbe necessaria a ciascuno di noi, se solo fosse capace di parlarci, di dirci qualcosa, di permetterci di essere più forti e sereni. Per farlo, ci vuole una forza grande e autorevole, nel nostro campo, perché sia possibile lanciare la sfida a B e ai suoi. È un argomento semplice fino alla rozzezza, il nostro, ma è l'unica cosa che sentiamo davvero. Siamo preoccupati e siamo arrabbiati, come tanti di voi, per il tempo che abbiamo buttato via. Per il futuro che non sappiamo più raccontare. Per la cattiveria di questi tempi.
Vorrei che seguiste il nostro consiglio, anche e soprattutto se, come noi, volete cambiarlo, questo partito. Perché per cambiarlo, prima bisogna votarlo. Bisogna dargli forza, bisogna costruirlo. Fatelo e questa volta, ve lo promettiamo, non ve ne pentirete. Perché c'è qualcosa di nuovo, nell'aria cupa dei tempi nostri. Il nostro è un impegno preciso, non è una favola, anche se ci sentiamo un po' come il gatto con gli stivali: al giovane che lo riceve come unica eredità, rispondendo alla sua delusione fin troppo comprensibile, il gatto promette: «insieme potremo fare molto».
Incominciamo il 6 e il 7 giugno. Perché il Pd più lo voteremo, più lo cambieremo.