venerdì 30 aprile 2010

7 MAGGIO / RIMINI : PARTIAMO DA NOI



























VENERDI 7 MAGGIO / ORE 21
SPAZIO DUOMO - VIA GIOVANNI XXIII, 8 / RIMINI

Circoli, Cittadini, Persone
Parole chiare, Idee in circolo

Noi circoli, noi cittadini, noi persone
che non ci sentiamo di dover ripartire sempre da zero
che sappiamo che il PD è l'unica vera alternativa, ma va attuata
che ci aspettiamo finalmente una svolta
che vogliamo l'unità e l'innovazione
che crediamo di aver molto da dire, da proporre, da fare
che vogliamo esserci nelle scelte: dai contenuti alle persone
che vogliamo che le cose non siano sempre scontate


VIENI E INTERVIENI CON
LE TUE PAROLE CHIARE
E LE TUE PROPOSTE
DA METTERE IN CIRCOLO
PER IL PD NELLA PROVINCIA DI RIMINI



Partiamo da Noi è un'iniziativa che proponiamo a tutti i circoli, ai cittadini e alle persone della provincia di Rimini nel momento in cui il PD si avvia alla sua fase congressuale locale. Così, prima dei nomi, vorremmo parlare dei contenuti, delle idee e delle proposte. Vorremmo farlo dando rilievo alle esperienze innanzitutto di base. Farlo in modo molto concreto e anche - se possibile - conciso (cioè chiaro e sintetico senza troppi giri di parole). Quindi raccogliere assieme e in vario modo (videointerventi, lettere, mail, post su blog ecc...) tutti i contributi per farne una proposta organica e seria da promuovere e da porre al confronto nei congressi con la squadra e le persone che la possano attuare al meglio.

L'appuntamento del 7 maggio sarà solo un avvio, un primo passo, il resto del percorso lo decideremo assieme.

SE VUOI PUOI PRENOTARE IL TUO INTERVENTO INVIANDO IL TITOLO E IL TUO NOME A PARTIAMODANOI@LIBERO.IT

Con i piedi ben piantati dentro al PD


Nel quadro del congresso riminese del PD, si fanno largo idee che pare possano concretizzarsi (finalmente) in una segreteria. Insomma ci sono davvero, persone e gruppi, che con "metodo e coraggio" si propongono di prendere la guida del Partito Democratico riminese. Qualcuno che "ha qualcosa da dire e non solo qualcuno da mandare a casa".

Sulla ribalta nazionale ce se sono anche altri che vogliono sfidare l'establishment del Pd. Ma tutti dall'esterno. D'altra parte, aver voluto evitare a ogni costo le primarie alle scorse regionali, ha avuto l'effetto di esternalizzare la leadership in regioni chiave (Lazio e Puglia). A noi, che le primaire ci piacciono, non sarebbe successo. Ma tant'e'. E se c'e' un Vendola che pensa in grande fuori dal PD, vuol dire che e' ora che si lasci spazio, all'interno del PD, a chi sa, come Vendola, dare forma alla sintesi tra lavoro politico e comune sentire della gente, stando con tutti e due i piedi per piantati dentro al Partito Democratico.

Comincia la volata per le primarie Pd: con De Magistris e Santoro.

Se gli chiedi cosa voglia fare da grande, se un domani gli piacerebbe diventare il leader della sinistra italiana, Nichi Vendola risponde così: «Molti si preoccupano del mio futuro, ma io penso molto al tempo in cui potrò tornare a dedicarmi alla scrittura delle filastrocche e delle poesie». Una risposta alata, che tiene assieme la verità di una personale vocazione poetica, ma anche la bugia su una ambizione politica che c’è e che, per rispetto degli elettori pugliesi, per il momento è bene soffocare. Nichi Vendola lo sa bene: dopo la vittoria in Puglia, regione proverbialmente di destra, lui è l’unico personaggio della sinistra italiana al tempo stesso nuovo, vincente e con qualcosa da dire che non sia il consueto ritornello anti-berlusconiano. Proprio per questi motivi dietro le quinte - su impulso di Vendola ma anche per iniziativa di personaggi "insospettabili" - c’è un gran tramestio per trasformare il feeling tra il Governatore delle Puglie e una parte dell’opinione pubblica in una vera e propria "Operazione Nichi". L’obiettivo strategico sono le Primarie che il centrosinistra dovrebbe svolgere nel 2012 per scegliere il proprio leader alle Politiche. Ma a prescindere da una competizione popolare che per ora è soltanto molto probabile, intanto si sta lavorando per un primo evento nazionale che dia il là ad una nuova area politica. Nella partita c’è già il professor Ignazio Marino, pericoloso cavallo di Troia in casa Pd, se non altro per la sua capacità di parlare all’area più irrequieta della base democratica. C’è Luigi De Magistris, l’ex pm che si è iscritto all’Idv ma che non perde occasione per distinguersi da Antonio Di Pietro. Ma soprattutto - ecco la sorpresa - indaffaratissimo a far lievitare l’operazione è Michele Santoro, leader di un cospicuo "partito" di opinione chiamato "Anno Zero". L’idea alla quale si sta lavorando è una "convention" da tenersi a Firenze a fine maggio, con i riflettori puntati su quattro personaggi: Vendola, Marino, De Magistris e Santoro. Certo, il format potrebbe subire qualche modifica, ma attorno al nascente "vendolismo" c’è un grande attivismo. A 59 anni Michele Santoro sta rinfrescando - o travestendo? - la sua inossidabile vocazione a far politica, provando tra l’altro a favorire un "cambio di stagione" al "Manifesto". In redazione raccontano che a Santoro non dispiacerebbe un cambio di direzione - stima molto Norma Rangeri, che infatti è spesso ospite di "Anno Zero" - e che potrebbe favorire l’ingresso di nuovi soci nella cooperativa che edita il giornale. Tra quelle che potrebbero rivelarsi fantasie di corridoio, c’è anche l’ipotesi di un Santoro editorialista di un "Manifesto" impegnato a sostenere l’"Operazione Nichi". E Vendola? Quanto feeling c’è tra lui e ognuno dei puntuti compagni di strada che lo stanno affiancando? Prima delle Regionali, Vendola aveva accettato l’invito di Luigi De Magistris a presentare il libro dell’ex Pm. E in quella occasione erano emerse serie differenze tra il giustizialismo a tutto tondo di De Magistris e l’approccio anticonformista di Vendola. Soprattutto quando il Governatore aveva sfidato un pubblico di ben altri sentimenti, parlando bene di Bettino Craxi: «Non si può ridurre la sua vita politica ad una vicenda giudiziaria», fece bene a dire di no agli americani a Sigonella, ma anche a «far di tutto per salvare Aldo Moro, perché niente vale di più della vita umana». E Vendola è personaggio che non si lascia incasellare neppure nell’anticlericalismo di maniera di certa sinistra. Eccolo partecipare l’altro giorno alla processione della Madonna di Terlizzi, ma anche spiazzare tutti quando - nei giorni in cui il Vaticano sopportava lo scandalo pedofilia - Vendola ha confessato al "Corriere della Sera": «E’ stato forse più facile dire la mia omosessualità alla Chiesa che al partito». Ma ciò che lo rende diverso dai suoi compagni di strada è la sua idea-forte: «Il berlusconismo è una egemonia culturale, la capacità di proporre sogni, è stato un errore tragico demonizzarlo. Per batterlo non serve un Berlusconi rosso, bravo a comunicare, ma bisogna indicare al Paese le strade di uscita dalla crisi».

mercoledì 28 aprile 2010

Avviso ai naviganti. I due "nei" e una proposta aperta a tutti i circoli.

Ieri sera il Circolo di San Giuliano si è riunito. Abbiamo parlato dei congressi che sono alle porte.
L’arco costituzional-generazionale del circolo era al completo da Pietro neoiscritto e liceale a Chiara veterana e neopensionata.

E per sintetizzare le conclusioni a cui siamo giunti, vorrei proprio partire da questi due nei. Inteso sia come qualcosa di nuovo (di una svolta che ci si attende), sia come qualcosa che va perfezionato.

Pietro ha 17 anni e si scusa se non ci capisce sempre, ci invita comunque a esporci senza paura e a innovare, a parlare – innanzitutto – e a parlare chiaro – se possibile. Chiara invece si aspetta (a dire il vero è da un po’ che attende) un’idea in circolo, una cosa del tipo… “uno spettro si aggira per Rimini. Lo spettro della partecipazione”, qualcosa che ridia unità (quella vera), e condivisione (quella che parte dai contenuti).

Allora, primo:
Partiamo da qui. Dalla soluzione di questi due nei, per arrivare nei nostri territori a parole chiare – anche parole nuove -, e farlo con un percorso aperto e condiviso.

Secondo:
Partiamo da noi. Da noi che è un noi diffuso e aperto, plurale e differente come la vita, del resto. Noi circoli, noi cittadini, noi persone per cogliere l’opportunità di questo primo congresso territoriale della provincia e dei comuni e trasformarlo in un’occasione di dialogo e di coinvolgimento con la nostra base e i nostri elettori, per fare del Partito Democratico uno strumento utile e completo innanzitutto nelle mani delle persone, dei cittadini.

Ci vuole l’unità tra di noi e ci vuole l’innovazione. Ci vuole che siamo propositivi: asciugati gli occhi, ci vuole che ripartiamo, non da zero, no, ma da noi.

La nostra alternativa alla disaffezione e alle destre di casa nostra non parte dai nomi e cognomi che spenderemo in quella o in quell’altra competizione elettorale o congressuale, ma dai contenuti che sosterremo per differenziarci, dai metodi di scelta delle persone e di partecipazione che attueremo per coinvolgere la nostra base, anzi per allargarla, dentro e fuori il partito.

Prendiamoci quindi un po’ di tempo e un po’ di spazio per arrivare a parlare chiaro e netto come dice Pietro, guardiamoci in faccia e mettiamo finalmente le nostre idee in circolo e poi fissiamone la sintesi come dice Chiara.
Diamo questo senso ai nostri congressi: capiamo e diamoci le nostre parole chiave e poi diciamole a voce alta.

Perciò vogliamo proporre a breve scadenza - anzi a brevissima scadenza - un incontro aperto, a cui tutti saremo invitati a contribuire. Un contenitore per tutti i contenuti che vengano fissati, filmati, comunicati, metabolizzati e organizzati in una proposta seria nata da noi circoli, cittadini, persone della provincia.
Una proposta seria che parte dal PD (come lo vogliamo, come lo immaginiamo) ma che in definitiva guarda e parla alla nostra comunità avanzando proposte concrete di metodo e di merito che facciano del PD uno strumento sempre più utile, presente, rappacificato e coeso volto al miglioramento della qualità della vita nei nostri territori.

Non prendiamo troppi appuntamenti, quindi. Teniamoci liberi.
A presto. A prestissimo.

Roberto
Coordinatore del Circolo di San Giuliano.


p.s.
a proposito di chiarezza e di parole chiave che dobbiamo darci:
ogni parola non capita oggi è un calcio in culo domani, diceva don Milani.

martedì 27 aprile 2010

Giovani, leghisti ed emiliani


di Paolo Stefanini da l"Unita' del 23 aprile
Imola è in provincia di Bologna ma si sente romagnola. Sergio Zuffa, 47 anni, va in città a volantinare con il Movimento giovani padani davanti a un istituto tecnico pieno di ragazzi immigrati, ogni sabato mattina. «Se mi sento giovane? Lo sono» rivendica. E non pare scherzare, mentre muove con sforzo le braccia distrutte da un antico incidente. «Sono rinato, dopo un lungo coma, il 25 marzo 1985. Ho appena compiuto, insomma, 25 anni». È romanista e della Lega («perché sono stufo di tutto. E se mi vuoi fare un grosso dispetto, dammi del comunista. In famiglia, però, non posso parlare… sono tutti rossi»). È uno di quei tipi di provincia un po’ coloriti che alla Lega Nord fa meno gioco, in questa fase. Imbarazzano un partito sempre più di governo, che cerca di nascondere nell’armadio le corna celtiche. Specialmente nelle regioni rosse, dove è in forte crescita.Una crescita che ha portato il movimento di Bossi, alle ultime regionali, al 13,67 per cento in Emilia-Romagna, grazie al travaso di voti dei delusi di sinistra, dei delusi di Fini, ma anche grazie a tanti giovani piuttosto entusiasti del leghismo e che, a differenza di Zuffa, hanno dalla loro il conforto reale dell’anagrafe. Giovani e giovanissimi che scherzano sul sigaro, «simbolo da strappare dalle bocche di Che Guevara e Bertinotti perché adesso il più grande rivoluzionario è Bossi», ma che si dicono sempre, ossessivamente, «attaccati al territorio, alle tradizioni». Che possono essere «anche solo i cappelletti, per fare un esempio. Noi come donne padane ci diamo da fare per raccogliere le ricette tipiche della nostra zona. Difendiamo in questo modo la nostra femminilità», risponde con orgogliosa sicurezza Silvia Dallaglio, 23 anni ancora da compiere, che per il Carroccio è consigliere comunale a Mezzani, nella Bassa parmense. Molto meno sicura è sulla posizione da prendere in merito alla pillola abortiva Ru486. Ma ritrova il piglio per dire: «Nel mio paese abbiamo avuto un grande successo con due raccolte firme. Su due temi che piacciono tanto tanto: il crocifisso e la castrazione chimica».Un ventiduenne, quasi ad introdurre il viaggio tra i leghisti nelle regioni rosse aveva così sintetizzato la sua passione per la Lega: «Non riesco proprio a capire come quei signori della sinistra possano pensare di parlare a noi giovani. Quelli che sono rimasti fuori dal Parlamento hanno un vocabolario politico che ormai ci vuole il libro di storia aperto per capirli. Il Partito democratico, che si vuole vendere come “progressista” e moderno, è la fusione degli apparati residui di Pci e sinistra Dc. Sono gli avanzi del Novecento, come pretendono di interpretare il nostro futuro? Noi abbiamo un approccio più materialistico, forse più terra terra. Ma che ce ne facciamo delle grandi ideologie? I problemi della nostra generazione sono concreti: siamo lavoratori precari, siamo studenti e ricercatori costretti a fuggire all’estero, subiamo un’immigrazione aggressiva e senza regole. Noi non vogliamo cambiare il mondo. Vogliamo piccole certezze: un lavoro, il rispetto dei nostri diritti, essere padroni a casa nostra… Per questo riscopriamo il territorio, le tradizioni».Sogni, insomma, a raggio limitato. Anche se Irene Zanichelli, una giovanissima agit-prop leghista di Sorbolo (Parma) non ci sta: «Siamo aperti al mondo; oltre alla Padania difendiamo anche l’indipendenza del Tibet». E poi con risposta politicamente prontissima, a dispetto dei 15 anni da poco compiuti: «I giovani sono più attratti dalla Lega perché sono i più interessati al futuro. I vecchi ormai la loro vita l’hanno vissuta e possono continuare a votare a sinistra». Un suo tema di quarta elementare fece piuttosto parlare: era un’analisi accurata del pensiero di Bossi. Nella sua cameretta ha tutto coordinato in verde, un poster del Senatùr e un po’ del merchindising di via Bellerio: matite, fazzolettini di carta, tatuaggi lavabili dell’Alberto da Giussano. Fuori da quelle camerette c’è un mondo con poche certezze. Una i giovani padani d’Emilia però ce l’hanno: «Mai moschee!». Al di là del dispetto nei confronti del “comunismo” (inteso spesso come «Pd» o come «buonismo») è l’avversione all’islam avanzante a cementare di più la loro militanza. «Non sono razzista», premettono tutti. «Non sono razzista», premette anche Ilaria Montecroci, 22 anni, consigliere comunale della Lega Nord a Baiso, Appennino reggiano, «ma sono xenofoba. Nel senso che sì, paura ho paura di loro. Che vengono qua senza rispettare le nostre tradizioni e, anzi, cercando di imporci le loro». «L’immigrazione», «i clandestini», «gli stranieri irregolari». Hanno risposto praticamente all’unisono alla domanda «Cosa ti fa più arrabbiare in Italia?», i giovani leghisti durante una festa in una discoteca di Imola. Anche se più bravo a spiegare il perché di queste paure e di questa fiducia di molti giovani emiliani nella Lega è stato il ferrarese Fabio Bergamini, coetaneo e braccio destro di Alan Fabbri, sindaco leghista trentunenne di Bondeno (prima città d’Emilia sopra i quindicimila abitanti a essere amministrata dal Carroccio): «In genere quelli che si avvicinano a noi sono ragazzi stanchi di una politica che non ha più passione, non ha simboli. Che non accende. Perse le ideologie (forse è un bene, forse un male) questi ragazzi vedono in noi almeno un’identità forte, quella del loro territorio. Il Pd, invece, è un partito freddo, di apparato. Che per sua costituzione non vuole essere passionario. E che in queste zone appare tradizionalista: conserva un voto di generazione in generazione». E poi ha spiegato quello che qui, appena al di sotto del Po, hanno ribattezzato «il ’68 alla rovescia».«Anzi», precisa, «un ’68 finalmente nel senso giusto. Giovani e operai si sono uniti. Si sono dati al senso pratico. Al pragmatismo. Si sono avvicinati a noi persino ragazzi dei centri sociali e di Rifondazione: orfani che cercavano qualcuno in grado di rispondere alle loro rivalse, a un disagio sociale crescente. Ora diamo più punti in graduatoria in base agli anni di residenza e alle donne che lavorano, visto che i musulmani di solito le tengono a casa. Qui non potevamo pensare di eleggere il sindaco gridando “Padania libera!”, dovevamo farci vedere attenti ai problemi del territorio, in un momento di crisi come questo e con elettori, anche giovani, che spesso provengono da tradizioni di sinistra. L’Emilia è un caso-scuola, per noi».

lunedì 26 aprile 2010

I pregiudizi sulla «società incivile»


di Dario Di Vico, dal Corriere del 7 aprile

Davvero si può spiegare il successo della Lega come il frutto di un sapiente incastro di escamotage fiscali e concessioni clientelari, come sostiene appassionatamente l’economista Tito Boeri sulla «Repubblica» di domenica? Qualcuno davvero pensa che il consenso che le piccole imprese e le partite Iva hanno riversato sulle liste del Carroccio si possa motivare con i benefici che avrebbero ricevuto da «trasferimenti occulti di cui non si ha traccia» (e non si capisce dunque come se ne abbia notizia)? Quindi sociologi e giornalisti che si sono arrovellati per capire il funzionamento della macchina politica di Umberto Bossi hanno perso tempo.

La soluzione era facile facile: il Carroccio vince perché ha creato una greppia del Nord. Sia chiaro, e va detto con il massimo di onestà, fare i conti con i fenomeni politici e sociali dell’Italia 2010 non è facile, si lavora «dentro» una crisi di cui non conosciamo gli esiti, si rischia di continuo il contropiede e non bisogna mai pensare di poter catalogare tutti i comportamenti sociali con un unico registro. Ma tentare di spiegare i mutamenti di un Paese con una teoria delle «mance elettorali» è un esercizio che non porta lontano, si finisce solo per piegare la realtà al proprio credo accademico.

Sul fronte della piccola impresa gli ultimi 10 mesi sono stati densissimi. Abbiamo visto nascere associazioni spontanee come «Imprese che resistono» e «i Contadini del tessile», a Torino e Firenze sono stati organizzati per la prima volta cortei di strada, nel Varesotto si è andati avanti al ritmo di un’assemblea ogni due settimane, le organizzazioni degli artigiani e dei commercianti — i cinque del club di Capranica — hanno deciso di rompere gli indugi e unificare la loro rappresentanza. L’unico partito politico che ha capito cosa stesse capitando ed è corso ai ripari è stata la Lega, aiutata dal fatto che l’epicentro del protagonismo dei Piccoli fosse nelle sue terre d’elezione. Gli esponenti del Carroccio sapevano di dover fare i conti con un’enorme contraddizione: la propria base voleva la riforma fiscale subito e il governo, nella persona del nordista Giulio Tremonti, sosteneva invece che i tempi non fossero maturi. Dopo che Gianni Letta aveva annunciato all’assemblea della Cna l’imminente riduzione dell’Irap chi se non il ministro dell’Economia aveva convinto Silvio Berlusconi a fare marcia indietro?

Per capire quanto la Lega fosse preoccupata per questa contraddizione bastava in questi mesi seguire gli interventi pubblici e le contorsioni dei vari Calderoli, Giorgetti o Garavaglia, costretti a difendere la logica dell’odiata Maastricht e a perorare lo slittamento di qualsiasi taglio delle tasse. Dovendo caricarsi questo handicap la Lega ha pensato di giocare altre carte. Una mossa-chiave è stata spingere perché prima delle elezioni fosse approvata la legge sulla tutela del made in Italy, una norma sottoposta ora al vaglio delle autorità di Bruxelles, ma che ha avuto un alto valore simbolico grazie al suo promoter, Marco Reguzzoni, abile nel farne una bandiera leghista. Anche Prato per la Lega è diventato un simbolo. Le amministrazioni comunali rosse avevano per anni e anni sottovalutato la crescita del sommerso cinese in Toscana.

Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha giocato in contropiede, è andato a Prato, ha rafforzato i blitz nei laboratori e ha costretto l’ambasciatore cinese in Italia a far buon viso a cattivo gioco. Di esempi così se ne potrebbero fare diversi (basta analizzare la campagna di Luca Zaia dall’hamburger McItaly agli Ogm) ma la sostanza non cambierebbe. La Lega ha capito per tempo che il mondo dei Piccoli era in rapido mutamento, che stava per nascere una nuova rappresentanza politico-sindacale che nel medio periodo avrebbe intaccato il suo monopolio e bisognava dunque rispondere per tempo accentuando i toni della propaganda politica. L’ha fatto e ha avuto ragione anche perché il Pdl si è via via allontanato dalla sua base sociale e il Pd non è mai entrato in partita. Anche in Veneto dove ha candidato Giuseppe Bortolussi, cantore delle partite Iva, il risultato è stato modesto. La sinistra in Italia è uno spazio culturale, non un’offerta politica.

La Lega, dunque, non è stata premiata perché ha presentato un’exit strategy dalla crisi, tutt’altro. Si è esibita come partito antropologico, capace di ascoltare e di trasformare le istanze del suo popolo in un racconto collettivo, in una proposta identitaria. Con la globalizzazione — è la tesi leghista — la modernità è come se avesse operato un’inversione a U, non marcia più a braccetto con lo sviluppo, anzi lo minaccia. Bisogna dunque rallentarla con ogni mezzo, proteggere le comunità, salvaguardare l’iniziativa individuale e ogni tipo di tradizione che può fare da argine, inclusa quella religiosa. L’Italia, dunque, come un grande museo no global. Tutto ciò scalda i cuori ma non è un programma per uscire dalla crisi e infatti i leghisti glissano non solo sulla riforma fiscale.

Sono tiepidi persino sulle aggregazioni e le reti di impresa, sanno poco o niente su cosa sta avvenendo con la bolla delle partite Iva diventate in parte lavoro dipendente mascherato, sul terziario balbettano e sono totalmente all’oscuro del contributo che può venire dal mondo delle professioni. Ma questo dibattito post-elettorale non ci parla solo della capacità politica della Lega e della paradossale debolezza programmatica, ci racconta anche dei ritardi delle nostre élite, forse le più spocchiose del G8 e le più disancorate dalla realtà. Visto che il voto ha smentito le loro tesi, ora hanno preso a sostenere che la società del Nord «è incivile» o addirittura assistita grazie alla Cassa integrazione in deroga. Ma non sanno che i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si sono allungati all’inverosimile (con un record di 700 giorni!) e le amministrazioni sono debitrici nei confronti delle imprese per una cifra stimata in 60 miliardi? Che cosa avrebbero dovuto fare gli imprenditori dei distretti per sperare di non finire nelle liste nere compilate dai campioni del politicamente corretto?

La «società incivile» ha resistito alla crisi, non ha ridotto il personale, in qualche caso ha pagato con la vita il proprio impegno, ha dato vita a una partecipazione sindacale e associativa che non si vedeva da tempo, ora si muove per aggregare le aziende creando delle reti e intanto si batte per essere presente sui mercati emergenti. Se non vivono sul mercato loro, non so chi in Italia si possa vantare di farlo. E poi se le nostre élite erano così preoccupate del degrado civile del Paese perché nessuno di loro si è mai indignato quando in Toscana, nella civilissima Toscana, i cinesi si sono liberamente organizzati sfruttando come schiavi i loro connazionali?

domenica 25 aprile 2010

Il tridente


da Wittgenstein
Bisognava vedere Serracchiani, Renzi e Civati ieri sera da Santoro per capire cosa si intende quando si parla di una nuova generazione di politici di sinistra solida, efficace, preparata e con una percezione del mondo moderna e competente. Bastava guardarli, per chiedersi quale pavido capriccio abbia mantenuto fino a oggi una qualche fiducia verso una leadership politica straordinariamente valida rispetto a quella della maggioranza ma palesemente responsabile di vent’anni di sconfitte e fallimenti. Bastava avere un po’ di lucidità e sincerità per rendersi conto che la prima cosa che impedisce alla sinistra italiana di fare un salto di qualità è davvero – davvero – che chi la guida pigramente da decenni si rifiuta di offrire spazio alle persone in grado di rimpiazzarlo.

sabato 24 aprile 2010

Domenica 25 aprile

Domenica 25 aprile
Rimini, Piazza Tre Martiri

“Libere Iniziative”

Ore 15 :
- Mostra sulla Costituzione “Il popolo è sovrano”
- Mostra “I Figli della Schifosa – Una Storia Partigiana”

Ore 17 : - Lezioni in piazza : - Dalmazio Rossi “Le domande della Resistenza”
- Marco Caligari “Rimini 1944, lavoro dei maschi e le resistenze al femminile”

Ore 19 : aperitivo con offerta libera

E alle ore 20.30 CONCERTO
Reagenti limitanti;
Miami & the Groovers acoustic duo;
Beppe Ardito;
la sezione + Daniele Maggioli;
Folli Folletti Folk e Jam session finale















venerdì 23 aprile 2010

Ricordare per continuare a resistere



I partigiani lottarono contro l’oppressione fascista, oggi è necessario lottare per difendere la libertà di tutti.

Proiezione del blob:“Ieri ed oggi: la resistenza”

Sabato 24 Aprile dalle 8.00 alle 20.00portici di Palazzo Garampi, lato corso d’Augusto
Incontro e dibattito:Perché continuare a ricordare la Liberazione? Interverranno ANPI, EMERGENCY e rappresentanti della società civile impegnati nella lotta alla mafia ed alle discriminazioni

Sabato 24 Aprile ore 16.30-18.30 Osteria Harissa Via L. Tonini 16/a – Rimini

Affinchè la liberazione sia per tutti!!!

"Il passato prossimo ci ha letteralmente sfiniti"


Da Il fatto del 21 aprile. Lettera a Bersani.


La politica ha bisogno di un nuovo incanto e non di ulteriori disincanti. Il Pd non deve essere il partito dei giovani dirigenti, nella versione caricaturale che qualcuno vuole offrirne. Il Congresso c’è stato e non l’hanno certo vinto i giovani. Il Pd può però essere il partito dei giovani elettori, che rappresentano (secondo Termometro Politico) il 25% degli elettori che si sono recati alle urne alle ultime regionali (la stessa percentuale che ha preso il Pd…). Un’intera generazione rimasta senza rappresentanza. A destra, c’è chi i voti, tra i giovani, già li prende, e altri, come il ‘solito’ Fini, che hanno inteso occuparsene, aprendo alcuni fronti (tra cui, ovviamente, proprio quello della gioventù, absit iniuria verbis) di notevole interesse.

L’anno prossimo si celebra l’Unità d’Italia: bene, bisognerebbe farne una nuova, di unità, e una nuova, di cittadinanza. Chi è giovane, in Italia, affronta qualcosa che prima nemmeno c’era: il lavoro precario (quasi esclusivamente precario), l’immigrazione (ormai arrivata alle seconde generazioni, giovani e giovanissimi futuri italiani), la ‘rete’ e le sue opportunità.

Ci vuole un nuovo approccio liberale che entri in relazione con i carbonari della rete. Qualcuno che interpreti le urgenze dei “Mille all’incontrario”, che salgono da Sud a Nord per lavorare (negli ultimi anni è cresciuto il divario tra Nord e Sud e sono tornati a crescere i giovani che dal Sud vanno al Nord). Uno straniero che non è più austriaco, ma viene da più lontano e forse non va vissuto solo come un nemico, ma come qualcuno con cui allearsi, nel rispetto reciproco.

Dobbiamo unire le generazioni, unire il Paese in un dibattito più civile, unire il lavoro, anche perché i lavoratori con i diritti tra poco si estingueranno (vedi alla voce contratto unico). Unire politica e società civile, perché questa separazione è sempre più artificiosa. Introdurre una lealtà contributiva tra i concittadini: perché gli stessi ‘clandestini’ non sono negri, ma neri, non per via di un linguaggio ripulito, ma proprio perché quasi sempre sono lavoratori in nero. Dobbiamo dare alla nuova generazione qualcosa di simile a ciò che è stato possibile alla precedente.

Chi è ‘nato’ nel 1994, si sente meno uguale degli altri, perché la disuguaglianza in questi anni è cresciuta. E dobbiamo ‘unire’ i diritti, senza esclusioni per motivi ideologici. I giovani italiani si aspettano le unioni civili, perché le ‘vivono’. Sono favorevoli alla ricerca scientifica, non condizionata dalle morbosità di alcuni. Siamo nel 2010, non nel 1010, e a guardare questa Italia corporativa e oscurantista, invece, viene più di un dubbio. Ecco: reintroduciamo il tempo del futuro nella coniugazione del verbo, anche perché il passato prossimo ci ha letteralmente sfiniti.

La metafora più influente è quella dell’investimento, perché in questo Paese chi investe non è premiato. Anzi. E poi c’è l’ambientalismo, quello di nuova generazione, quello di tutto il resto del mondo, un ambiente che parla all’economia. La banda larga e il wifi. La partecipazione. E un linguaggio diverso, meno rituale, meno ossequioso, più diretto e concreto.

Il Pd come partito dei giovani: una suggestione limitata ai giovani, appunto? Nient’affatto, perché non c’è proprio alcun giovanilismo, ma una precisa strategia, che può essere riassunta nel famoso adagio: «Parlare a nuora (e a genero) perché suocera (e suocero) intendano». Perché è ovvio che risposte date a chi ha meno di trentacinque anni, sono offerte alle famiglie italiane senza limiti di età, anche perché sono le famiglie italiane a fare da welfare, da finanziarie, da sindacati, ormai, per i loro giovani.

E certo, per farlo, ci vuole anche la rappresentanza, una classe dirigente più ‘contemporanea’: il tema del «ricambio» (finora ha vinto il «rimango» generazionale) arriva alla fine, non certo all’inizio del processo. Perché siamo a Pompei 1994, ancora sotto la cenere, e anche Plinio il Giovane, ormai, è invecchiato. Che qualcuno intervenga. E non lo racconti soltanto, ma faccia qualcosa. Perché è già troppo tardi.

giovedì 22 aprile 2010

Come NON far rinnovare le tessere in 10 giorni


19 aprile 2010 di mattiacarzaniga
Per ragioni di svacco domenicale (seguito però da impegno di lavoro domenicale) ho rivisto ieri una delle rom-com – in gergo si dice così – più sottovalutate (da noi) degli ultimi diciamo dieci anni, e cioè Come farsi lasciare in 10 giorni. Dove Kate Hudson, di professione giornalista, mette in atto tutte le cose da non fare per tenersi un uomo (salvo poi incontrare Matthew McConaughey): ovvero fare proposte di matrimonio al secondo appuntamento, farla annusare e poi tirarsi indietro, piantare un piagnisteo dietro l’altro, e così via. Ci ripensavo, poco fa, leggendo le ultime dal fronte piddino, quello del Mi Si Nota Di Più Se Faccio Una Corrente Ma Dico Di Non Esserlo (Tanto C’è Chi Ha Già Una Fondazione, Tiè). Un partito che ha fatto promesse di matrimonio prima del tempo, l’ha fatta annusare e poi si è tirato indietro, ha piantato un piagnisteo dietro l’altro, e così via. Tanto c’è Fini che sa usare le regole del gioco, e si fa amare a destra e a manca (sic). È lui l’unica vera gattamorta della politica italiana.

mercoledì 21 aprile 2010

L'OPA sul Partito Democratico


Intervista a Giuseppe Civati di Attilio Ievolella su Il Politico


“Per noi tifosi, Del Piero è una ‘bandiera’, dovrebbe giocare fino a 60 anni… Nella Juventus ciò non accadrà, nel Partito Democratico, invece, potrebbe accadere…”.La metafora calcistica è lo strumento con cui Giuseppe Civati ‘fotografa’ le condizioni di salute del partito guidato - attualmente - da Pierluigi Bersani. E la metafora è resa ancora più forte dal fatto che a proporla sia proprio lui (35 anni, nato e cresciuto a Monza, prima dirigente dei Democratici di Sinistra e poi del Partito Democratico, punta della mozione Marino all’ultimo congresso, appena riconfermato consigliere regionale in Lombardia, e che, peraltro, in un sondaggio de ‘L’Espresso’, a febbraio dello scorso anno, relativo alla figura ideale come nuovo leader per il post-Veltroni, conquistò la seconda posizione, dietro Romano Prodi) che reclama, a gran voce, spazio per i personaggi (preferibilmente giovani) che emergono dai territori. L’identikit (di Civati) è, difatti, quello del 30enne rampante - affiancato idealmente da Renzi, da Serracchiani, oltre che da Vendola (che 30enne non è più), giusto per citarne tre - con l’aggiunta di una ‘truppa’ - come testimoniato dall’incontro di qualche giorno fa a Milano - pronta a tentare una ‘Opa’ sul partito. Tutto ciò mentre si discute di federalismo (del partito, sia chiaro).


Dalla fondazione già due leader… e mezzo sono stati cannibalizzati. E ora lei viene indicato come possibile opzione successiva: a quando il grande passo? “Se dicessi sì a questa ipotesi, sarei già stato mangiato… Il leader del Partito Democratico è Pierluigi Bersani, e ce lo teniamo stretto. Anche perché abbiamo vissuto un congresso, in cui anche io ho avuto visibilità e l’opportunità di parlare e di proporre una opzione, e l’elettorato ha scelto Bersani, e la sua proposta (con tutti i rischi che noi avevamo evidenziato…). Quindi, così come si governa un Paese, una volta eletti, così si governa anche un partito”.


Allora, Bersani confermato. Ma appunto ci sono molte cose che non vanno. Almeno a leggere i numeri, e a sentire le costanti diatribe interne. “Guardi, a Bersani chiedo, anzi chiediamo, di mettere in luce e di dare visibilità e forza a quelle che persone che, nel partito, la pensano diversamente da lui, nell’ottica del dibattito e del confronto. Per questo, non ho condiviso le parole di Chiamparino, perché fuori dal contesto legittimo, fuori dall’ambito del partito. Sarebbe stato molto più giusto parlarne direttamente in occasione della direzione nazionale di oggi. Così, continua soltanto il confronto sui giornali e mancano i discorsi veri sui problemi reali… e gli elettori ci verranno a prendere a calci”.


A questo punto, è da considerare anche l’ipotesi che il ‘progetto Partito Democratico’ sia fallito, in realtà.
“Assolutamente no. Perché questo progetto ha basi e significati, piuttosto c’è stato poco tempo per realizzarlo. Se vogliamo dirla tutta, sino ad oggi c’è stato troppo poco Pd, non troppo Pd…”.


Qual è, dunque, la ricetta per il rilancio? “Ci vuole più costanza nel costruire una propria proposta politica. Si è detto, ad esempio, di guardare anche al modello della Lega: io personalmente non condivido, ma se debbo indicare un pregio di quella realtà politica, è la costanza, che alle volte sfocia nella fissità. Ecco, come Partito Democratico dobbiamo trovare poche parole chiave su argomenti importanti, sulla questione immigrazione e sulla questione lavoro, ad esempio; parole chiave, sottolineo, non slogan”.


D’accordo, sono necessari i contenuti. Ma forse prima anche un chiarimento sui rapporti interni. “Da questo punto di vista, noi ci siamo presentati alle primarie con una mozione che proponeva il ricambio generazionale e che avrebbe attuato il ricambio generazionale. Ma abbiamo perso… Ora, però, ciò che conta è uscire dall’ottica del personalismo, perché è fondamentale che ci siano cambiamenti politici concreti. È importante che ci sia Civati, ad esempio? Assolutamente no, è fondamentale, invece, che ci sia confronto a livello orizzontale, all’interno del partito. Eppoi, bisogna ricordare che è necessario dapprima imparare, per poi poter insegnare… quindi, bisogna dire no alla semplice idea di ‘mini Veltroni’ e ‘mini D’Alema’”.


Qual è allora la prospettiva nuova (se c’è), per il partito? “Ciò che proponiamo è un progetto completamente diverso, che porti a un confronto chiaro, netto, con tranquillità, all’interno. E che conduca ad agire, non solo a parlare. Ad esempio, ho ascoltato, i giorni scorsi, Prodi e Chiamparino, due persone che stimo: entrambi hanno detto ciò che andrebbe fatto. E se invece ciò che va fatto, lo facessimo insieme? Sarebbe sicuramente meglio. Ecco perché abbiamo deciso di realizzare un coordinamento che affronti, in questi mesi, determinate problematiche reali, e che presenti, a luglio, sul tavolo di Bersani delle idee da valutare, delle proposte da considerare”.

Però avete anche parlato di un ‘co.co.pro.’ per il partito. Leader e gruppo dirigente a tempo, praticamente… Per la verità, è il progetto politico da realizzare ad essere a tempo. Eppoi, voglio ricordare che la fedeltà è al progetto politico, non certo al leader di un partito o a un gruppo dirigente. In questa ottica, ogni persona dovrebbe riconoscere il proprio tempo e le proprie occasioni e non affezionarsi mai al proprio ruolo”.


La proposta di Prodi è per un partito federale.“Se vogliamo un partito federale, allora dobbiamo dare spazio alle realtà del territorio, dando adeguate risorse e facendo emergere anche le problematiche delle strutture territoriali, magari contattandole per conoscere le loro esperienze. Se un sindaco, ad esempio, cresce come sostegno e vince, è giusto che sia lui ad andare in televisione, piuttosto che un dirigente nazionale. Se, invece, pensiamo semplicemente di collocare i segretari regionali nella direzione nazionale, beh, allora cambia davvero poco”.


Dica la verità: il nodo è sempre quello, il ricambio.“Guardi, le assicuro che le persone non riescono a capire come si possa vivere sempre e solo di politica… Fatta questa premessa, assicuro che l’obiettivo non è fare fuori quelli di prima, chiamiamoli così; ciò che ci interessa è che il confronto sia aperto a tutti e coinvolga tutti”.


Belle parole, ma la sensazione è che, almeno a livello di intenzioni, l’Opa resti l’obiettivo.“Può anche succedere che un giovane trovi sempre più visibilità e sostegno, magari tra due o tre anni, ma, in realtà, per quanto concerne la guida del partito, non esiste alcuna preclusione. Per intenderci, se Bersani convince, trova posizioni nette su alcuni temi, come immigrazione e fisco, riesce a gestire il partito costruendo un gruppo dirigente forte, allora lo sostengo anche io… Se ciò non succede, allora…”.


Veltroni, Franceschini, Bersani. Tutti e tre, pur proponendo progetti in parte diversi, hanno incontrato difficoltà, appunto, a convincere. Forse quello che manca è una riflessione sull’Italia attuale? “Diciamo che viviamo in un Paese strano, dove c’è stata una fortissima sottovalutazione culturale del ‘berlusconismo’, se vogliamo chiamarlo così. Di certo, negli ultimi vent’anni l’Italia è cambiata moltissimo: è cambiata perché, ad esempio, oggi c’è internet, c’è il precariato, c’è la presenza della televisione (che ha portato la politica spesso a chiacchierare, piuttosto che a parlare di progetti). Ma noi, come Paese, sembriamo una sorta di Pompei dopo l’eruzione…”.


Ovvero?“Praticamente bloccati, idealmente, nella stessa posizione. Fermi all’anno 1994. In Italia ci sono gli stessi gruppi dirigenti, gli stessi uomini nella finanza… Questo (anche) è il problema del Paese, sofferto dai giovani”.


E dal punto di vista del Pd? “Tenga presente che, vista l’età, ho conosciuto solo la politica dal 1994 ad oggi. E oggi è strano sapere che l’unico a pensare una strategia diversa, nuova, in prospettiva, è Gianfranco Fini. Ebbene, anche il nostro partito deve ritrovare il suo Fini, metaforicamente s’intende. Una persona, cioè, che pensi non di cancellare ma di aggiungere. Abbiamo oggi Bersani, D’Alema, Veltroni, ma ci sono tantissime altre personalità che debbono trovare spazio nel Partito Democratico. Ciò perché il mondo è diverso rispetto a sedici anni fa, va in una direzione completamente diversa, e noi abbiamo bisogno di energie nuove e volti nuovi”.

martedì 20 aprile 2010

Beppe Grillo e il re nudo


di Edmondo Berselli

Un pezzo di Berselli che ci rigurdava piu' di altri (17 luglio 2009).
La candidatura del comico genovese - amatissimo dal popolo del web - alla guida del Pd, avrebbe offerto al centrosinistra una chiara opportunità di riavvicinarsi al suo elettorato

Beppe GrilloÈ un'ottima notizia che Beppe Grillo si sia candidato, con le sue maniere scandalistiche, alle primarie del Pd. Così com'era apparsa un'altra eccellente notizia la candidatura del 'terzo uomo' Ignazio Marino. Questo perché il Partito democratico, di qui a ottobre e comunque per il futuro, ha un disperato bisogno di rientrare dalla realtà virtuale alla realtà reale. Finché Marino parla di laicità, nessuno può misurarne lo spessore effettivamente politico e la capacità reale di aggregare consenso. Si tratta di un fenomeno etico-mediatico. Così come quando parlano i 'giovani' del Pd, nessuno è in grado di valutare l'effettiva qualità politica delle loro posizioni. Le parole di Debora Serracchiani e la prosa dell'emergente Giuseppe Civati, a un esame disincantato, sono ancora intrisi di politichese, e in ogni caso rappresentano il segnale che la preoccupazione fondamentale del Pd, fra giovani e vecchi, è la costituzione del partito: tradotto in termini volgari, l'occupazione e l'organizzazione di spazi di potere.Niente di male, la politica è anche questo. Ma ogni posizione va portata dentro la realtà vera. Cioè va misurata. Altrimenti rimane un bluff. La candidatura di Beppe Grillo inserisce un primo elemento di verità perché costringe a rivelare il bizantinismo dello statuto del Pd; ne inserisce un secondo, molto più forte, perché se effettivamente colui che i telegiornali di regime chiamano "il comico genovese" parteciperà alle primarie di ottobre, avremo la possibilità di conoscere la sua consistenza effettiva, numerica, quantificabile, tutta al di là dell'alone mediatico dei blog, dei Vaffa Day, del facile consenso degli 'indignati'.Fra i molti problemi della sinistra c'è quello di trascinarsi dietro una scia di rancori che assumono un rilevo emotivo molto intenso, ma non sembrano in grado di trasformarsi in una posizione politica razionale. Rabbie, proteste, frustrazioni animano "un volgo disperso che nome non ha", per citare il Manzoni, senza che questo vortice di antagonismi trovi una sintesi. Grillo, per dire, gliela offre.
Bisogna vedere se avrà il coraggio di andare fino in fondo, accettando il responso del giudizio popolare alle primarie; oppure se invece approfitterà del palcoscenico offerto da "una sinistra del nulla" per urlare le sue idee eco-antagoniste, movimentare le piazze con il giustizialismo e poi tirarsi indietro, come talvolta fa, senza accettare il confronto e tornando al calore rassicurante e politicamente inutilizzabile del suo quasi-movimento.Insomma, c'è qualcuno che deve sbattere il grugno contro la verità, e vedere come ne viene fuori. Ne è venuto fuori malissimo, praticamente alla prima uscita, Marino, anzi, è uscito in modo grottesco con la storia della questione morale a proposito dello stupratore seriale responsabile di un circolo democratico romano. Si può non amare Massimo D'Alema, ma come si fa a ignorare ciò che ha detto in una memorabile intervista pubblica con Antonio Polito al Democratic Party di Roma? D'Alema dixit: si scagliano tutti contro gli apparati, ma io per le ultime elezioni ho fatto 130 manifestazioni nel Sud e quelli che parlano con disprezzo degli apparati non hanno mosso un dito. A Crotone, ha aggiunto D'Alema, provincia rossa, con 25 comuni su 27 amministrati dalla sinistra, siamo riusciti a presentare sei candidati di centrosinistra, di cui due del Pd, e siamo riusciti a perdere.Il senso del discorso dalemiano è indiscutibile. Qui non è in gioco il partito 'bocciofila' di Pier Luigi Bersani (ma che cosa avrà voluto dire?) e neanche la dislocazione di potere fra le varie stalattiti di potere che vengono dal passato del Pd e dalle furbizie e dagli opportunismi odierni dei vari leader, veri e presunti. È in gioco una prospettiva di sopravvivenza per la sinistra, e non soltanto quella riformista. C'è qualcuno che ha sentito parlare di una cultura? Di indizi di una politica? Grandi discussioni, molto ispirate, su come il Pd deve essere, e balbettii pensosi su che cosa deve fare politicamente.Per questo non ci si può permettere di esorcizzare Grillo come ha fatto Piero Fassino, segnalando il rischio 'Helzapoppin''. La politica è la politica, chiunque entri in campo. Dopo di che, chi ha qualcosa da dire, ma di reale e oggettivo, parli, discuta, convinca. Altrimenti c'è solo conformismo, convenzioni, politica politicante. E Grillo non vincerà le primarie, ma se è appena capace mostrerà la nudità del re.

lunedì 19 aprile 2010

martedi 20 aprile "l'Italia è una repubblica fondata sul


Nell’ambito del programma delle iniziative per il 25 aprile 2010, l’ANPI
promuove una serata di approfondimento sul tema: “L’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro – Lo Statuto dei Lavoratori”.

Introduce Francesca Panozzo, consigliere prov.le ANPI.
Interverranno: Graziano Urbinati, Segretario Generale della CGIL Rimini,
Mauro Guidoni Presidente ACLI Provincia Rimini e Vittorio Angiolini, costituzionalista, docente di diritto e diritto costituzionale dell’Unione Europea, all’Università di Milano.

Conduce il confronto Patrizia Lanzetti, direttrice del Corriere di Rimini.

Vittorio Angiolini è considerato un luminare della materia. Ha insegnato anche all’Università Bocconi ed all’Università Cattolica di Milano, per poi giungere, nel 1996, alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano. E' autore di oltre cento pubblicazioni a carattere scientifico e di volumi monografici, sui diritti costituzionali e diritti individuali.
E’ membro dell’Istituto delle Scientifico della Amministrazione Pubblica e dell'Associazione Italiana Costituzionalisti.
Dall’anno 2000, ha cominciato a svolgere anche la professione di avvocato, soprattutto presso le giurisdizioni superiori (Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte Costituzionale), nonché presso le Corti sovranazionali, essenzialmente nel campo del diritto amministrativo e costituzionale, con particolare attenzione per la garanzia dei diritti fondamentali.

“Prosegue, riferisce Giusi Delvecchio, Presidente della Locale sezione dell’ ANPI, la nostra iniziativa per divulgare ed affermare la Costituzione Italiana. Come ho avuto modo di dire nell’iniziativa di domenica scorsa, dedicata alla lettura in piazza dello Statuto dei Lavoratori, i valori della Resistenza, dell’ Antifascismo che ricorrono il 25 aprile, vivono nella Costituzione Italiana. E la nostra Costituzione, unica al mondo, già dall’art.1 fonda lo Stato, la Repubblica, sul Lavoro.

Lo Statuto dei Lavoratori non un è manifesto di parte ma è la legge 300/1970 che ha ridato dignità ai lavoratori ed ai diritti sindacali soppressi dal fascismo. Ma, soprattutto, tra i giovani questo strumento di diritto e poco conosciuto.

Il progetto dell’ANPI, aperta ai giovani, è quello di far vivere i valori democratici nati dalla Resistenza, grazie al sacrificio di tanti giovani di allora, nel rispetto e nella difesa della ostituzione e dei suoi principi fondanti, tra cui, appunto, il diritto al Lavoro”.

Hanno aderito il Comune di Santarcangelo, l’Unione dei Comuni della Valmarecchia ed i singoli Comuni, l’Istituto Storico della Resistenza, Acli- Provincia di Rimini, Emergency, Libera, Associazione Gruppo San Damiano, Uisp, Arci ed Arcigay, Cgil, i Partiti: RC, IDV, Lista Civica, PD, PSI, SEL, Verdi- Pace.

Regna, ma non governa


di Alberto Rossini

La crisi, o se vogliamo la rottura, tra il capo del Governo Berlusconi e Fini, può essere letta in molti modi, tuttavia più di ogni altra cosa mi pare che metta in evidenza un punto riassunto dal giudizio apparso sui quotidiani per cui “il Premier regna ma non governa”. E’ un giudizio tranciante ma grosso modo corrisponde al vero. Anche Stefano Folli sul Sole sostiene che questo sia il vero pericolo che sta di fronte alla maggioranza per i prossimi tre anni, se la situazione attuale non venisse superata. La difficoltà del governare, ovvero la capacità e volontà di prendere decisioni più o meno scomode, è il problema vero che ci sta di fronte, non solo a livello nazionale. Mi sembra che anche a livello locale ci sia la stessa identica difficoltà. Non parlo solo del nostro territorio, è una questione che si pone un po’ovunque. Tant’è che si distinguono e fanno notizia e magari vengono rieletti a grande maggioranza, proprio quei sindaci che sanno decidere e compiono scelte che certamente all’inizio scontentano qualcuno, ma alla fine, come si dice in questi casi, pagano. I cittadini capiscono e apprezzano il risultato finale. Penso alla scelta del Tram a Firenze, ma potrei citare tutte le opere di riqualificazione urbana che hanno caratterizzato Torino o le scelte sulla mobilità compiute a Padova, o Venezia.
In questa difficoltà, italiana, ma non solo, penso alla Francia di Sarcozy, sta una sorta di implicita contraddizione, di aporia, della democrazia.
Ovvero per andare al governo occorre vincere le elezioni, per prendere un voto in più dell’avversario è necessario raccontare agli elettori quello che vogliono sentirsi dire, fare promesse, assicurare che tutto verrà deciso senza creare problemi a nessuno. Ma così una volta conquistato il potere politico e amministrativo non si riesce praticamente a far nulla per effetto dei veti incrociati che le diverse lobby e rappresentanze della società reciprocamente frappongono ad ogni progetto da realizzare.
In questo modo nessun vero progetto che incida nella struttura della società o che rompa con le regole e le abitudini consolidate verrà mai attuato.
Certo ci sono delle eccezioni, alcune scelte che comunque si compiono, magari per motivi personali o per la pressione di autorevolissime lobby.
Ciò che mi interessa sottolineare che la ricerca facile del consenso, la demagogia, la retorica usata per far paura e ampliare problemi di natura minore, o promettere facili soluzioni a problemi complessi, è lo strumento con cui si impostano (quasi) sempre le campagna elettorali.
Poi governare è tutta un’altra cosa. Gli esempi potrebbero essere molti: immigrazione, scuola, crisi economica, politiche del lavoro, ecc. a livello nazionale. Mentre a livello locale dove far passare una strada, come trattare gli immigrati, come spendere le tasse locali, dove fare una discarica, sono decisioni difficili che qualcuno dovrebbe pur prendere.
Insomma la democrazia ha i suoi paradossi, ma una classe dirigente (non sono solo i politici!) si riconosce e si valuta dalla capacità di ragionare sui problemi e di risolverli.
La premessa di simile stile di governo non può essere la ricerca del facile consenso, ma il tentativo di convincere la maggioranza esprimendo un proprio progetto ed una propria visione del mondo, fatte di idee e proposte concrete. Se si vince così poi si può governare. Altrimenti è dura….

domenica 18 aprile 2010

Messaggio di fiducia


Passaggio fianle dell'intervento di Bersani alla direzione di sabato.


«Rilanciare il modo d'essere come partito, chiedo la disponibilità politica per intervenire subito su chi vota ai Congressi, se iscritti o elettori, per le strutture provinciali; noi dobbiamo prendere dal basso il tema del federalismo: finanziamenti vanno alla base, i soldi restano lì; una quota significativa dei membri delle Federazioni debba essere composta da segretari di circolo; incompatibilità incarichi di partito e incarichi istituzionali; tracciabilità dei finanziamenti delle candidature; esigibilità delle norme del nostro Codice etico». Ci vediamo all'assemblea di maggio. «Messaggio di fiducia».

sabato 17 aprile 2010

SULL'UNITA' DI DOMANI

Dopo l'intervista a Cevenini di Onide Donati sull'Unità, riportata nel post più sotto, domani ci hanno annunciato - sempre sull'Unità regionale (dunque compratela così magari aiutiamo anche uno dei pochi spazi democratici e di informazione libera) - un'interessante intervista a un altro nuovo/giovane consigliere regionale, Thomas Casadei. Temi: trasparenza e ambiente + un'analisi del successo dei grillini.

Cevenini: con la politica scaldo i cuori


di Onide Donati
È stato eletto in Regione a furor di popolo, 19.106 preferenze. Una performance che viene da lontano, che ha seguito nel tempo percorsi originali e che fa di Maurizio Cevenini da Bologna un fenomeno politico. Grazie a lui, infatti, il Pd l’ha sfangata. Nel senso che, pur perdendo voti assoluti, è andato leggermente avanti in percentuale rispetto alle Europee e ha fatto sensibilmente meglio delle Comunali nonostante le dimissioni del sindaco. Riandando a Max Weber citato domenica da Nadia Urbinati, Cevenini sa che «vivere di politica significa che non si può vivere per la politica». Forse anche per questo il “fenomeno Cevenini” è da sempre qualcosa di alieno nel Pd. Lo si è visto quando nel 1999, ai tempi delle prime primarie, gli apparati Pds sponsorizzarono Silvia Bartolini che vinse nel partito ma perse nell’urna; e nel 2008 quando la storia si è ripetuta con Delbono. Ma Mister preferenze, è paziente e non molla mai. «Un’intervista? Certo, vengo io da voi». Cortesia è strategia: l’Unità è in una casa del popolo, Cevenini arriva e lo bloccano nel bar, autografa e distribuisce cartoline del “Cev c’è”, riceve pacche sulle spalle e raccomandazioni. Soprattutto una, perentoria: «La prossima volta il sindaco lo fai te!». Lui si schermisce e a l’Unità risponde cauto e un po’ paludato: «Sarò nel percorso per la scelta del candidato sindaco, ora non avanzo una mia candidatura, mi confronterò col Pd». Si voterà tra un anno e la tattica sconsiglia di avventurarsi in corse lunghe. In ogni caso, «il Cev c’è».

Cevenini, 19.106 preferenze che hanno contribuito a salvare il Pd e le carriere ad esso collegate. Lo sa? «Mah, è un’affermazione che avrebbe bisogno di qualche riscontro in più. Non so quante preferenze sono state solo per l’uomo e non per il partito. Comunque l’Udc ha preso 18.600 voti nelle zone di Casini, io 500 preferenze in più».

Vuol dire che il Pd dovrebbe smetterla di guardare al centro? «No, dovrebbe correre per diventare maggioranza nel paese. Tutti i voti sono buoni».

Chi sono «quelli del Cev»?«Mi dicono che prendo voti perché vado sempre allo stadio, perché da 15 anni celebro 30-40-50 matrimoni al mese. Ma chi impedisce ad altri di fare lo stesso? Io allo stadio arrivo 90 minuti prima della partita e discuto di tutto: del traffico, del nido, della scuola. Ascolto. La gente mi usa perché vuole parlarmi».

Cito Nadia Urbinati: è la presenza sul territorio che manca. «Sono d’accordo ma è un’affermazione parziale. Bisogna essere sul territorio e scaldare i cuori. Se vai tra la gente con un approccio scientifico ed esponi uno schema rigido, vieni percepito come uno che non sa cos’altro dire. La politica deve essere narrazione, passione, coinvolgimento. Io impiego anche il teatro. Il mio amarcord sul Bologna dello scudetto ha fatto sempre il tutto esaurito. Mi accusano di essere un presenzialista: e cos’è, una colpa? È vero il Cev c’è par tot, per tutti».

Lei ha perso le primarie due volte. Il Pd non la vuole?«Primarie pilotate e con un risultato scontato sono inutili, meglio mandarle in soffitta. Ogni corrente si pesa e si fossilizza, la quantità non si trasforma in qualità. Io, che non ho mai voluto la nascita dei “ceveniniani”, chiedo una moratoria delle componenti. E ricordiamoci che dal ‘96 ad oggi abbiamo perso i due bonus della novità ulivista che ci aveva regalato Prodi».

A Bologna e in regione il Pd ha avuto uno smottamento verso Grillo...«A Grillo invidio i giovani. E di Grillo dobbiamo essere capaci di raccogliere la sfida. Dalla finestra della vostra redazione si vede una fabbrica, la Sintexcal, azienda inquinante di categoria A. Doveva essere trasferita a Sala Bolognese in un sito perfetto, impianti a norma. Poi il sindaco di quel Comune non ha saputo gestire le proteste dei suoi cittadini e l’operazione è saltata. Grillo nei suoi spettacoli parla della Sintexcal da tre anni. E in questa zona è andato oltre il 10% dei voti».

È un problema di classe dirigente che esprime il Pd nei territori?«Bè, il Pd è stato percepito come incapace di risolvere un problema specifico. Stavolta Weber lo cito io: se vivi di politica devi essere dentro la realtà delle cose. Ma cito anche Elio Bragaglia, mitico assessore con Imbeni: devi ascoltare sempre chi ti pone un problema e cercare le soluzioni che servono alla collettività».

Ma come è, nei fatti, questo Pd? Né carne né pesce? «E' affaticato, con una classe dirigente che si fa spingere troppo spesso sulla difensiva. Una volta eravamo noi il partito di lotta e di governo, oggi è la Lega. Loro, forza del nord, puntellano Catania. Noi a Bologna facciamo dimettere Delbono. Qualcosa non va».

Cosa farà adesso, in Regione? «Non starò col fiato sul collo ad Errani. Ci parlerò. E poi vorrei essere un punto di riferimento per Bologna dove con il commissario non ci sono più istituzioni elettive».

venerdì 16 aprile 2010

Un candidato incorruttibile per la città sofferente


Della serie cosa vuol dire riuscire a corrispondere il sentire popolare degli elettori del Partito Democratico. Quella che segue e' una sorta di giaculatoria "brunoriana" (noi del Circolo di San Giulaino sappiamo a cosa mi riferisco e sappiamo quanta ragione porta con se'...) di JimmyVillotti (musicista bolognese che non necessita di presentazioni) nella quale solo il lettore piu' disattento machera' di coglierne l'universalita' rispetto a quasi ogni realta' dell'Emilia Romagna (dico quasi perche' gli esempi virtuosi e "propositivamente sperimentali" ci sono, nati proprio nel nostro PD e ne parleremo...). Certo lo shock tutto bolognese della vicenda Del Bono risuona molto forte. Bene, a Rimini, dove ad esempio, l'onda grillina, con tutti i suoi limiti, ha spopolato come in poche altre realta' trae tanta della sua ragione di essere proprio dal comune sentire espresso in questo piccolo frammento. E siccome la lesa maesta' in politica non esiste, a questo diffuso e soffrente sentimento bisogna dare delle risposte.


da Repubblica — 11 aprile 2010 di JIMMY VILLOTTI

UNA città in odore di metropoli. Questa è Bologna. Diventerà un grande centro di cultura e di interessi, attenta a far proprio un certo tipo di controllo sul territorio, dove il rispetto per le comunità prevarrà sulle decisioni e tutele del singolo cittadino. Bologna rivestirà il ruolo di città aperta ad ogni esigenza. Come sempre. Imprese edili costruiranno nuovi quartieri, i vecchi incroci saranno sostituiti da rotonde e rotondine sempre più efficaci nella scorrevolezza, nuovi semafori a tempo frazionato coordineranno il via-vai dei pedoni (che dovranno essere velocissimi per scattare al verde), mentre i vigili urbani attenderanno a sanzioni sempre più specializzate (mi meraviglio come non siano già arrivati alle pene corporali). Quello che un tempo si auspicava nella utopistica "città ideale" è ora alla vista di ogni cittadino: indigeno, pakistano, montenegrino, arabo, circasso, cussita e, perché no, assiro-babilonese. Questa sarà Bologna. Anzi lo è già. Politicamente impostata su forze centriste, dove l' opposizione ha un ruolo compatibile di leggero contrasto sulle decisioni della giunta, che sono e saranno sempre dipendenti al giro di capitali fruiti nelle casse comunali o delle ditte appaltatrici, in misura di una sempiterna girandola d' interessi che con le tasse e i finanziamenti statali darà vita alle cosiddette "grandi opere". Che sono quelle che faranno una Bolognina non più Bolognina, una Casaralta non più Casaralta, un San Ruffillo non più San Ruffillo. Solo una grande importanza per il quartiere fieristico, la stazione, il civis, le monorotaie, gli svincoli, le bretelle, gli allacciamenti e le volture. Nell' economia dei grandi numeri tutto questo tramestìo porterà occupazione, lavoro, immigrazione sempre più pressante ed espansione della città, così che la bella Bologna guarderà all' avvenire? Io che ho amato Bologna fino a trattenerne il veleno; io che ho conosciuto una città pulsante nell' odore periferico più che non nel lezzo della city; io che ne baciavo il suolo quando tornavo dalle turné all' estero, che ne ho vissuto i rantoli della notte... quando ancora non si diceva cultura, ma arte del vivere (nelle sue innumerevoli sfaccettature), io che ho conosciuto l' umanità petroniana: accogliente, un po' superficiale, lavoratrice e ciabattona, bonaria e sognatrice (anche un poco snob)... l' isola felice si diceva... io che dico con convinzione che la parola cultura è retaggio dei sentimentalismi bolscevichi o, neanche tanto paradossalmente, nazionalsocialisti (ricordate Goebbels?), che riempire piazza maggiore con Sting o Zucchero o Elton John non è fare cultura; io che odio qualsiasi forma di-dietrismo; ebbene... non mi prendo fuori cantilenando le parole di un amico disilluso, che diceva: "Schiverò fin dal sottobosco!". Anzi, ora più che mai, combatterò con perseveranza per la dignità del singolo, nella sua entità costitutiva e nel suo diritto ad essere parte dominante di una comunità sana. E voterò un uomo che sia incorruttibile fino alla santità: a cavallo tra un Robespierre e un Leonardo Tucci, il mio amico carrozziere che fa politica dal basso. Altri non ne vedo.

giovedì 15 aprile 2010

Mantova crede alle favole leghiste. Ma il Pd che racconta?


di Oreste Pivetta da l'unita' del 14 04 10
Ci si può consolare con la riconquista di Cologno o con la bandiera che sventola su Saronno, nel fior fiore leghista, dopo aver brindato al primo turno per la beffa (ai danni di Castelli) a Lecco o per la resistenza di Venezia. Sul ponte non sventola bandiera bianca, ma al nord le bandiere verdi oppure azzurre sono ormai tante, malgrado Torino, Genova, la Liguria, Padova, eccetera eccetera. S’è persa Mantova, che era una roccaforte al di sopra del Po. Formigoni s’è sentito l’estro di dire: Mantova è tornata in Lombardia. La sconfitta di Mantova ovviamente pesa, ma è forse legata più a questioni locali che a una deriva “nazionale” del centrosinistra: troppe liti nell’amministrazione, troppe divisioni, probabilmente incomprensibili per chi deve votare. E che preferisce stare a casa. Parla chiaro il dato delle astensioni, che colpiscono di più a sinistra che a destra. Una lezione viene però: il bisogno di unità e quindi di identità. Tre assessori che lasciano la giunta e si schierano con il partito avverso danno il senso del malessere: non si può solo imprecare contro i cattivi consiglieri. Non s’è neppure giocato a Vigevano, che pure le sue tradizioni di sinistra le conservava. Qui ha perso il Pdl (con l’appoggio dell’ultimo sindaco comunista) di fronte alla Lega, che ha raggiunto percentuali da profondo Veneto, salendo oltre il 70 per cento. La Lega vince quando va da sola, ha commentato Maroni, alludendo a chissà quali altre avventure solitarie o semplicemente riallungando le mani sulla candidatura milanese, dopo i primi annunci di Bossi. La Lega è un partito mobile, va su e giù rapidamente. Quante volte lo si è dato per morto. Ha vinto perché ha lasciato meno degli altri al partito degli astensionisti. Nell’universo dei disillusi dalla politica, qualcuno illuso crede ancora alla Lega più che agli altri partiti. «La Lega sa dare risposte», dice Flavio Zanonato sindaco di Padova (fuori dalla mischia elettorale: il suo mandato scadrà fra quattro anni). Cioè semplifica risposte: «Di fronte alla questione della sicurezza, noi chiamiamo in causa le ingiustizie del mondo, la Lega dice che si era meglio come si stava prima e che là, a quel prima, bisogna tornare». Sinistra in colpa per le soluzioni troppo complesse che offre. Evidentemente la gente non capisce oppure sorvola sugli inguaribili mali del mondo e preferisce per il presente la ricetta semplice della Lega. Che si presentò trent’anni fa con un manifesto che diceva: «Roma ladrona». Quello slogan continua a ripeterlo, anche se a Roma ormai ci sguazza. Slogan, risposte facili, legame con il territorio sono i condimenti del successo leghista. Mettiamoci le facce nuove, magari le capacità teatrali (anche di Zaia che improvvisa comizi in dialetto sui covoni di fieno), magari il vantato, ossessivo, attaccamento alla terra. Poi è tutta un’altra storia: conta una geografia del potere e del sottopotere che gradualmente s’è diffusa e che crea il “radicamento” che conta. Adesso si aspetta la scalata alle fondazioni bancarie. Questo il quadro, rapidamente. Sulle ragioni si potrebbe discutere ed elencare di conseguenza, dalla crisi della società industriale, che ha tolto di mezzo la grande organizzazione operaia (vedi la condizione dello storico triangolo Milano-Torino-Genova), sostituendola con il lavoro parcellizzato, al declino delle forme tradizionali della politica, dal degrado culturale tra crisi della scuola e invadenza televisiva (conta di più il grande fratello di Minzolini) all’antica malattia di un paese diviso tra nord e sud, tra periferia (in questo caso ricca) e centro. Il federalismo è una favola, ma intanto gridare ai quattro venti «federalismo fiscale» aiuta. Osserva uno storico dell’Economia, Giulio Sapelli: «In una stagione di crisi economica, l’operaio senza lavoro vede i propri figli senza speranze se non in un lavoro precario. E allora abbandona chi ha voluto la legge Treu sul precariato, chi ha sostenuto la legge Biagi, chi difende scorciatoie verso i licenziamenti con la scusa che favorirebbero le assunzioni». Se metà dell’elettorato se n’è andato al mare invece di votare, mentre i partiti discutono di presidenzialismo alla francese (e magari è la metà dell’elettorato che più nel passato ha fatto politica o che sarebbe più disponibile a farla), c’è proprio al Nord una società viva, fatta di gruppi, associazioni, minoranze che si assommano, che fa a proprio modo rete e politica e che è disposta ad impegnarsi di nuovo, se le si presenta un progetto credibile...
In rete si troavano davvero tanti commenti su quanto avvenuto a Mantova. Segno che qualcos di particolarmente grave ha colpito l'immaginario collettivo democratico. Qui di seguito ne pubblichiamo un altro (oltre a quello di ieri) tanto per dare un'idea.
Mi permetto di rettificare, da Mantova, punto per punto tutte le osservazioni di Claudio da Moglia (il post riportato ieri, n.d.r.). La Brioni ha commesso grossi errori, non ultimi quelli di comunicazione, ma imputare a lei l'intera colpa della sconfitta è quantomeno ingeneroso. Diciamo che è stato un bel gioco di squadra dell'intero centrosinistra. Era quasi un anno che la Brioni chiedeva a gran voce le primarie, mentre i suoi nemici (all'interno del PD mantovano la parola giusta è appunto "nemici") hanno cercato in tutti modi di evitarle. E in effetti una volta falliti nel tentativo di scalzarla, si sono fatti trascinare (appunto di malavoglia) alle primarie. E come D'Alema ed il suo avatar in Puglia sono stati puntualmente sconfitti. Insomma tramaccioni "ma anche" incompetenti. Dopo la sconfitta alle primarie "i ribelli" se ne sono andati, sparpagliandosi nella lista dell'ex ras DC Zaniboni, alleato con l'Udc, e in quella del Pdl, lasciando dietro di loro terra bruciata e un'immagine desolante di guerra per bande. La Brioni ha provato a fare pulizia in casa, sbagliando probabilmente modi e tempi, e senza avere le risorse per affrontare questa battaglia. E ha passato l'immagine, a dire il vero abbastanza veritiera, di una donna sola e arroccata, circondata da pochi fedelissimi pretoriani. La peggior campagna elettorale a memoria d'uomo (un vero sproposito comunicativo, con comizio di D'Alema annesso) ha fatto il resto, consegnando la città alla destra locale: un'accozzaglia di freak leghisti, vecchi parrucconi perdenti di innumerevoli battaglie, voltagabbana di vecchia data e qualche esimio rappresentante della Mantova bene, il tutto guidato da un architetto amico di Bondi, sconosciuto al di fuori del suo nucleo familiare soltanto un paio di mesi fa. Altro che radicamento leghista...

mercoledì 14 aprile 2010

Abbiamo perso anche Mantova


Il breve pezzo che segue sulla sconfitta di Mantova e' del Civati. Le analogie con tante altre realta' italiane (ivi inclusa emblematicamente Rimini) ci sembrano lampanti: ecco perche' e' un tema che e' parte integrante di questo nostro percorso congressuale riminese.
In calce al pezzo di Civati trovate il commento di un elettore mantovano. Ancora piu' emblematico, se possibile.


Abbiamo perso Mantova. Sorpresa sui giornali e nel gruppo dirigente del Pd. Peccato che a Mantova tutti lo sapessero o lo temessero. Peccato che il malumore verso la gestione politica e amministrativa fosse arrivato alle stelle mesi e mesi fa. Peccato che qualcuno avesse chiesto una riflessione un anno fa, perché oltre alla fuoriuscita di molti esponenti dell'ala cattolica, lo scontento fosse altissimo anche nella parte laica del Pd. Peccato che ora sia un po' troppo tardi per capire chi avesse ragione e chi torto. Peccato che si sia andati diritti, senza cambiare nulla. Peccato che non è vero che si sia perso, perché le Regionali, a Mantova, sono andate molto meglio delle Comunali (si parla di quasi 10 punti in più, e tutti a parlare di questione del Nord senza averne capito un accidenti). Peccato che nessuno sia intervenuto, nemmeno quelli che ora parlano degli errori degli altri: hanno ragione, perché gli errori si commettono quando si fa qualcosa, quando non si fa nulla è molto difficile anche sbagliare. Peccato che si siano tenute le primarie troppo tardi, di malavoglia, come al solito, e peccato che chi ha preso il 40% in quelle primarie non sia stato coinvolto successivamente. Peccato che a chi ha chiesto, sommessamente: «vi serve una mano?», sia stato risposto: «no, grazie, facciamo noi». Peccato che in Lombardia ci rimangano solo Lecco e Lodi (e Sondrio, mi correggono), che non sono esattamente i capoluoghi strategici della regione. Peccato.

Scrivo dalla campagna mantovana, quindi potrei sbagliare qualcosa sulla città. A me sembra che la tua analisi sia corretta. Però mi permetto di difendere Fiorenza (la candidata a sindaco). Nel 2005 vinse con un programma chiaro (lotta alla speculazione e all'affarismo a spese della città che nel frattempo è diventata patrimonio dell'Unesco) e lo ha perseguito fino in fondo. Lo scontento ? La guerra contro di lei (principalmente dall'interno) è iniziata il giorno dopo l'elezione, quanti consigli comunali deserti, ricatti continui, iniziative bloccate, ed è proseguita fino alla fine. Battaglie interne al gruppo dirigente del PD per la segreteria cittadina (non rispetto degli accordi con una parte della componente cattolica), nomina in gran segreto del segretario provinciale, guerre all'ultimo sangue per le candidature regionali, con una consultazione "ridicola" dei circoli, primarie in grande ritardo e non coinvolgimento della minoranza, quando la stessa Brioni le aveva chieste un anno prima, assessori e consiglieri passati all'ultimo alla concorrenza, sono il quadro completo. La battaglia finale "politica" lanciata da Dalema e gli altri dirigenti venuti a Mantova in massa ha "infastidito" molti, troppi. Dovevano fermare l'avanzata dei Lanzichenecchi ? Non ci riuscì nemmeno Giovanni de Medici (dalle bande nere) causa il tradimento del Marchese di Mantova.
Claudio Sala (Moglia - MN)

martedì 13 aprile 2010

E POI TI DICONO "TUTTI SONO UGUALI, TUTTI RUBANO ALLA STESSA MANIERA..."


Semplicemente non c'è. Nei nuovi programmi di storia che si studieranno dal prossimo anno nei licei non si parla di Resistenza. Così come antifascismo e Liberazione non sono neanche citati. Il buco è al quinto anno, dedicato allo studio dell'epoca contemporanea, dall'analisi delle premesse della I guerra mondiale fino ai nostri giorni. La nuova articolazione, spiegano dal dicastero di viale Trastevere, è stata dettata dalla necessità di evitare che succedesse, come spesso è successo, che non si arrivasse neanche a fare la II guerra mondiale. Troppo poco, ecco perché la commissione per la storia, presieduta da Sergio Belardinelli, ha deciso di assegnare un intero anno di studi al Novecento. Nella formulazione dei temi fondamentali, le indicazioni nazionali precisano che «non potranno essere tralasciati i seguenti nuclei tematici»: l'inizio della società di massa...«il nazismo, la shoah e gli altri genocidi del XX secolo, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda (il confronto ideologico tra democrazia e comunismo), l'aspirazione alla costruzione di un sistema mondiale pacifico (l'Onu), la formazione e le tappe dell'Italia repubblicana».Si passa poi alla formazione dell'Unione europea e agli Usa, «potenza egemone, tra keynesismo e neoliberismo», senza tralasciare «il rapporto tra intellettuali e potere politico», da affrontare in modo interdisciplinare. A differenza dei vecchi programmi, parole come antifascismo, Resistenza, Liberazione sono sparite. «Nessuna operazione di rimozione», dice a ItaliaOggi Max Bruschi, consigliere del ministro dell'istruzione, Mariastella Gelmini, e presidente della cabina di regia sulle indicazioni nazionali dei licei. «I programmi hanno individuato alcuni nuclei fondamentali lasciando grande libertà alle scuole, ai docenti. Quando parliamo di seconda guerra mondiale e della costruzione dell'Italia repubblicana per noi è evidente che è inclusa la Resistenza». Eppure sulla Shoah, per esempio, si precisa che lo studio deve ricomprendere anche gli altri genocidi, una precisazione che manifesta una sensibilità storica e politica sui cui non si è disposti ad affidarsi all'autonomia e alla bravura dei docenti. «La Shoah è un unicum, poi ci sono altri genocidi su cui non si può far finta di niente. Ciò non toglie, sull'altro fronte, che la Resistenza è un valore imprescindibile, mai pensato di declassarla». Il punto è che un elenco di fatti significativi di un periodo può facilmente essere accusato di parzialità se non li cita tutti. «Il nostro non è un elenco esaustivo e prescrittivo, abbiamo solo indicato macrotemi», dice Bruschi. Che nega che possa esserci il rischio che la Liberazione finisca per essere liquidata in due righe e la lotta partigiana magari in una nota. «Che esagerazione, non c'è nessun rischio di questo tipo. Ma se il fatto che nei programmi non c'è la parola Resistenza è un problema, allora... possiamo sempre reinserirla», ribatte.I programmi infatti non sono ancora definitivi. Genitori, insegnanti e associazioni possono dire la loro alla Gelmini sul forum dell'Indire. C'è tempo fino al 22 di aprile.“Protesteremo, protesteremo con il ministro Gelmini, innanzitutto. E coinvolgeremo tutti a tutti i livelli, politici, sindacalisti, storici, perché si rimedi a un grave errore, una vergogna». Al telefono dalla sua casa romana, il 91enne Massimo Rendina, medaglia d'oro della Guerra contro il nazifascismo, presidente dell'Anpi di Roma, l'associazione nazionale partigiani d'Italia, ha l'indignazione appassionata di quando era partigiano a Torino. Eppure dal ministero assicurano che non c'è stata nessuna volontà politica di cancellare la Resistenza o la Liberazione non citandole espressamente nei programmi di storia... «È una dimenticanza pericolosa. C'è il tentativo, da un po' di tempo, di rimuovere il nostro passato, la cui conoscenza è già così flebile. Si vuole mettere tutto sullo stesso piano, tutti colpevoli e tutti innocenti, i ragazzi partigiani e i repubblichini di Salò, senza così far capire come è nata l'identità democratica dell'Italia». E ricorda come, ministro della pubblica istruzione Rosa Russo Iervolino, «ci fu il primo riferimento diretto nei programmi di storia al fascismo, l'antifascismo e alla Resistenza. Il ministro Berlinguer poi lo chiarì con una circolare. Tornare indietro è un errore dal punto di vista culturale e politico, una lesione alla memoria storica del paese». C'è chi rivendica la necessità di riscrivere la storia di quegli anni dolorosi, di mettere in luce gli errori e i delitti commessi da una parte e dall'altra. «Ma glissare sulla Resistenza, con la scusa che tanto è compresa tra le tappe dell'Italia repubblicana, farla finire magari in una nota a piè di pagina di un libro di testo, non è revisionismo, è confusionismo», ribatte Rendina, «io vado in giro nelle scuole, i ragazzi non sanno nulla... Non c'è bisogno di confondere le acque, non gli facciamo un buon servizio»
Alessandra Ricciardi

lunedì 12 aprile 2010

Un Partito per giovani


Parafrasiamo e decliniamo in riminese una parte di una sorta di manifesto programmatico volto a tentare di definire un profilo politico del Partito Democratico che ci piacerebbe e a cui pensiamo in vista del congresso. Non e' tutta farina del nostro sacco, ma siccome e' copyleft (per citare l'autore) lo facciamo nostro: si chiamano Think Tank (che sta per "gruppo che pensa" e gia' questa visione collettiva ci piace e a Rimini faremo in modo che sia tale) e lo facciamo all’aperto, lontano dalle stanze chiuse, lontano dalla burocrazia. Una segretria (e non solo un segretario), ad esempio, cosa dovrebbere essere se non un "gruppo che pensa e che poi fa' "? Non dobbiamo riprenderci il Pd, ma piuttosto dobbiamo restituirlo agli elettori. E piu' siamo e meglio e'.

Il Pd deve diventare il partito dei giovani italiani (e quindi dei giovani riminesi). Non il partito dei giovani dirigenti o dei giovani sindaci o dei giovani assessori, ma il partito dei giovani elettori. Chi ha meno di quarant'anni non è rappresentato da nessuno. Sul "contratto unico" siamo tutti d'accordo (vedi Ichino o Boeri), ma ancora non si vede una campagna in questo senso, che lo renda popolare, che sappia dire al singolo precario che cosa gli succede se vince il Pd, che sappia indicare al Paese una via più razionale, seria e consapevole al proprio sviluppo (a Rimini, ricordiamolo, 1 su 10 e' assunto con un contratto a tempo indeterminato) . Il sistema elettorale allontana i giovani dalla politica (per la verità, allontana tutti). L'innovazione tecnologica è un tema frequentato pochissimo (ma qui noi a San Giuliano sentiamo il nostro utilizzo del web come un'avanguardia riminese, si parva licet). Il dibattito sui diritti è in alto mare, come se fossimo nel 1010 e non un millennio più avanti. Un nuovo ambientalismo non riesce ancora a imporsi, come accade in altri Paesi. Per tutto questo, lavoreremo alla redazione del manifesto del partito dei giovani. Ascoltando tutti. Dai giovani che si sentono democratici (anche quelli che, come dice Elio, all'improvviso sono "vecchissimi" e a Rimini ne sappiamo qualcosa) agli anziani-e-però-giovanissimi del partito, dal popolo Viola a «quelli che la politica gli fa schifo», da chi cerca lavoro a chi l'ha trovato ma non sa quanto durerà e quelli che (beati loro?) non hanno (ancora?) mai lavorato, a chi vuole capire se in Italia il sole continuerà a sorgere. E poi possiamo parlare di "primarie come metodo", di partito aperto e non chiuso, di una generazione nata con la nascita del PD che deve freudianamente "uccidere il padre", delle correnti che non ci piacciono e di congressi che (non solo a Rimini) per la prima volta possono davvero realizzare il Partito Democratico. Possiamo parlare della primavera riminese. Per andare oltre e andare oltre i quarant'anni, se ci riusciamo.
Ed e' solo l'inizio.

domenica 11 aprile 2010

Apriamo il cantiere della sinistra. Idee e contributi per il nuovo Pd


Giovani e lavoro: le idee forti cerchiamole qui
di Paolo Nerozzi

Il banco di prova del nuovo riformismo italiano, come ha scritto ieri Alfredo Reichlin, è nel trovare giovani che espongano «idee forti» e non solo il «certificato di nascita». La prima idea forte del Pd deve essere, a mio avviso, rivolta al mondo del lavoro poiché, dopo le ultime lezioni, è evidente il mancato incontro tra le idee, le istanze del Pd e del centrosinistra in generale con ampi settori del mondo del lavoro, lavoratori dipendenti e piccole imprese, che costituivano da sempre la base sociale di riferimento delle forze progressiste. Elettori sempre più attratti dal richiamo della Lega e meno disponibili a investire nel centrosinistra spesso assente da quei territori dove l’incertezza delle condizioni di lavoro e di vita, fatte di disoccupazione e precarietà e quartieri insicuri, poveri di servizi sociali diventano terreno fertile per la costruzione di un blocco sociale di destra fondato sulla paura e l’incertezza. A fronte del disagio che attraversano questi ampi strati della società italiana il messaggio della Lega e delle destre appare spesso rassicurante, seppure rozzo e pericoloso. Ma a esso il Pd non è riuscito a contrapporre una diversa idea di società e di politica. In questi mesi il tema del lavoro e della crisi è stato al centro dell’agenda del Pd. Ma non è stata prefigurata un’idea unificante del mondo del lavoro e uno sviluppo possibile per il Paese. Un progetto di politica industriale, un’idea di accesso unitario al mondo del lavoro, di superamento della precarietà, di sostegno ai redditi, un’iniziativa a favore della rappresentanza e della democrazia nei luoghi di lavoro potrebbero rappresentare una base solida di dialogo con il mondo del lavoro. Insieme a nuove modalità di accesso al credito per le imprese e una Pubblica amministrazione efficiente e trasparente. Bisogna ripartire da qui contro la delusione per la politica. Disagio avvertito nella lontananza dei giovani dalla politica e nel voto di protesta per le “liste Grillo”. Dobbiamo esprimere un cambio di passo capace di presentare agli elettori una classe politica capace di coniugare progetto politico e prassi di governo basata su rigore e trasparenza. Troppo spesso anche il Pd rischia di risultare troppo simile ai suoi avversari. Abbiamo bisogno di messaggi nuovi e di comportamenti coerenti. Per far questo è indispensabile aprire il Pd alle nuove generazioni. L’età, di certo, non è l’unico elemento di rinnovamento. Servono contenuti, progetti in grado di cogliere le trasformazioni della società e trovare le risposte più opportune. Sarà vitale, per il Pd,investire su ragazze e ragazzi portatori di idee, linguaggi in sintonia con le nuove istanze della società e di pratiche che ci riconnettano a un universo giovanile estraneo dal nostro agire politico quotidiano. Inoltre, il Pd deve guardare all’esperienza Puglia dove si è espresso un sentimento politico che dovrebbe trovare spazio anche nello stesso Pd allargandolo a nuove istanze e nuove culture.