martedì 27 aprile 2010

Giovani, leghisti ed emiliani


di Paolo Stefanini da l"Unita' del 23 aprile
Imola è in provincia di Bologna ma si sente romagnola. Sergio Zuffa, 47 anni, va in città a volantinare con il Movimento giovani padani davanti a un istituto tecnico pieno di ragazzi immigrati, ogni sabato mattina. «Se mi sento giovane? Lo sono» rivendica. E non pare scherzare, mentre muove con sforzo le braccia distrutte da un antico incidente. «Sono rinato, dopo un lungo coma, il 25 marzo 1985. Ho appena compiuto, insomma, 25 anni». È romanista e della Lega («perché sono stufo di tutto. E se mi vuoi fare un grosso dispetto, dammi del comunista. In famiglia, però, non posso parlare… sono tutti rossi»). È uno di quei tipi di provincia un po’ coloriti che alla Lega Nord fa meno gioco, in questa fase. Imbarazzano un partito sempre più di governo, che cerca di nascondere nell’armadio le corna celtiche. Specialmente nelle regioni rosse, dove è in forte crescita.Una crescita che ha portato il movimento di Bossi, alle ultime regionali, al 13,67 per cento in Emilia-Romagna, grazie al travaso di voti dei delusi di sinistra, dei delusi di Fini, ma anche grazie a tanti giovani piuttosto entusiasti del leghismo e che, a differenza di Zuffa, hanno dalla loro il conforto reale dell’anagrafe. Giovani e giovanissimi che scherzano sul sigaro, «simbolo da strappare dalle bocche di Che Guevara e Bertinotti perché adesso il più grande rivoluzionario è Bossi», ma che si dicono sempre, ossessivamente, «attaccati al territorio, alle tradizioni». Che possono essere «anche solo i cappelletti, per fare un esempio. Noi come donne padane ci diamo da fare per raccogliere le ricette tipiche della nostra zona. Difendiamo in questo modo la nostra femminilità», risponde con orgogliosa sicurezza Silvia Dallaglio, 23 anni ancora da compiere, che per il Carroccio è consigliere comunale a Mezzani, nella Bassa parmense. Molto meno sicura è sulla posizione da prendere in merito alla pillola abortiva Ru486. Ma ritrova il piglio per dire: «Nel mio paese abbiamo avuto un grande successo con due raccolte firme. Su due temi che piacciono tanto tanto: il crocifisso e la castrazione chimica».Un ventiduenne, quasi ad introdurre il viaggio tra i leghisti nelle regioni rosse aveva così sintetizzato la sua passione per la Lega: «Non riesco proprio a capire come quei signori della sinistra possano pensare di parlare a noi giovani. Quelli che sono rimasti fuori dal Parlamento hanno un vocabolario politico che ormai ci vuole il libro di storia aperto per capirli. Il Partito democratico, che si vuole vendere come “progressista” e moderno, è la fusione degli apparati residui di Pci e sinistra Dc. Sono gli avanzi del Novecento, come pretendono di interpretare il nostro futuro? Noi abbiamo un approccio più materialistico, forse più terra terra. Ma che ce ne facciamo delle grandi ideologie? I problemi della nostra generazione sono concreti: siamo lavoratori precari, siamo studenti e ricercatori costretti a fuggire all’estero, subiamo un’immigrazione aggressiva e senza regole. Noi non vogliamo cambiare il mondo. Vogliamo piccole certezze: un lavoro, il rispetto dei nostri diritti, essere padroni a casa nostra… Per questo riscopriamo il territorio, le tradizioni».Sogni, insomma, a raggio limitato. Anche se Irene Zanichelli, una giovanissima agit-prop leghista di Sorbolo (Parma) non ci sta: «Siamo aperti al mondo; oltre alla Padania difendiamo anche l’indipendenza del Tibet». E poi con risposta politicamente prontissima, a dispetto dei 15 anni da poco compiuti: «I giovani sono più attratti dalla Lega perché sono i più interessati al futuro. I vecchi ormai la loro vita l’hanno vissuta e possono continuare a votare a sinistra». Un suo tema di quarta elementare fece piuttosto parlare: era un’analisi accurata del pensiero di Bossi. Nella sua cameretta ha tutto coordinato in verde, un poster del Senatùr e un po’ del merchindising di via Bellerio: matite, fazzolettini di carta, tatuaggi lavabili dell’Alberto da Giussano. Fuori da quelle camerette c’è un mondo con poche certezze. Una i giovani padani d’Emilia però ce l’hanno: «Mai moschee!». Al di là del dispetto nei confronti del “comunismo” (inteso spesso come «Pd» o come «buonismo») è l’avversione all’islam avanzante a cementare di più la loro militanza. «Non sono razzista», premettono tutti. «Non sono razzista», premette anche Ilaria Montecroci, 22 anni, consigliere comunale della Lega Nord a Baiso, Appennino reggiano, «ma sono xenofoba. Nel senso che sì, paura ho paura di loro. Che vengono qua senza rispettare le nostre tradizioni e, anzi, cercando di imporci le loro». «L’immigrazione», «i clandestini», «gli stranieri irregolari». Hanno risposto praticamente all’unisono alla domanda «Cosa ti fa più arrabbiare in Italia?», i giovani leghisti durante una festa in una discoteca di Imola. Anche se più bravo a spiegare il perché di queste paure e di questa fiducia di molti giovani emiliani nella Lega è stato il ferrarese Fabio Bergamini, coetaneo e braccio destro di Alan Fabbri, sindaco leghista trentunenne di Bondeno (prima città d’Emilia sopra i quindicimila abitanti a essere amministrata dal Carroccio): «In genere quelli che si avvicinano a noi sono ragazzi stanchi di una politica che non ha più passione, non ha simboli. Che non accende. Perse le ideologie (forse è un bene, forse un male) questi ragazzi vedono in noi almeno un’identità forte, quella del loro territorio. Il Pd, invece, è un partito freddo, di apparato. Che per sua costituzione non vuole essere passionario. E che in queste zone appare tradizionalista: conserva un voto di generazione in generazione». E poi ha spiegato quello che qui, appena al di sotto del Po, hanno ribattezzato «il ’68 alla rovescia».«Anzi», precisa, «un ’68 finalmente nel senso giusto. Giovani e operai si sono uniti. Si sono dati al senso pratico. Al pragmatismo. Si sono avvicinati a noi persino ragazzi dei centri sociali e di Rifondazione: orfani che cercavano qualcuno in grado di rispondere alle loro rivalse, a un disagio sociale crescente. Ora diamo più punti in graduatoria in base agli anni di residenza e alle donne che lavorano, visto che i musulmani di solito le tengono a casa. Qui non potevamo pensare di eleggere il sindaco gridando “Padania libera!”, dovevamo farci vedere attenti ai problemi del territorio, in un momento di crisi come questo e con elettori, anche giovani, che spesso provengono da tradizioni di sinistra. L’Emilia è un caso-scuola, per noi».

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