giovedì 15 aprile 2010

Mantova crede alle favole leghiste. Ma il Pd che racconta?


di Oreste Pivetta da l'unita' del 14 04 10
Ci si può consolare con la riconquista di Cologno o con la bandiera che sventola su Saronno, nel fior fiore leghista, dopo aver brindato al primo turno per la beffa (ai danni di Castelli) a Lecco o per la resistenza di Venezia. Sul ponte non sventola bandiera bianca, ma al nord le bandiere verdi oppure azzurre sono ormai tante, malgrado Torino, Genova, la Liguria, Padova, eccetera eccetera. S’è persa Mantova, che era una roccaforte al di sopra del Po. Formigoni s’è sentito l’estro di dire: Mantova è tornata in Lombardia. La sconfitta di Mantova ovviamente pesa, ma è forse legata più a questioni locali che a una deriva “nazionale” del centrosinistra: troppe liti nell’amministrazione, troppe divisioni, probabilmente incomprensibili per chi deve votare. E che preferisce stare a casa. Parla chiaro il dato delle astensioni, che colpiscono di più a sinistra che a destra. Una lezione viene però: il bisogno di unità e quindi di identità. Tre assessori che lasciano la giunta e si schierano con il partito avverso danno il senso del malessere: non si può solo imprecare contro i cattivi consiglieri. Non s’è neppure giocato a Vigevano, che pure le sue tradizioni di sinistra le conservava. Qui ha perso il Pdl (con l’appoggio dell’ultimo sindaco comunista) di fronte alla Lega, che ha raggiunto percentuali da profondo Veneto, salendo oltre il 70 per cento. La Lega vince quando va da sola, ha commentato Maroni, alludendo a chissà quali altre avventure solitarie o semplicemente riallungando le mani sulla candidatura milanese, dopo i primi annunci di Bossi. La Lega è un partito mobile, va su e giù rapidamente. Quante volte lo si è dato per morto. Ha vinto perché ha lasciato meno degli altri al partito degli astensionisti. Nell’universo dei disillusi dalla politica, qualcuno illuso crede ancora alla Lega più che agli altri partiti. «La Lega sa dare risposte», dice Flavio Zanonato sindaco di Padova (fuori dalla mischia elettorale: il suo mandato scadrà fra quattro anni). Cioè semplifica risposte: «Di fronte alla questione della sicurezza, noi chiamiamo in causa le ingiustizie del mondo, la Lega dice che si era meglio come si stava prima e che là, a quel prima, bisogna tornare». Sinistra in colpa per le soluzioni troppo complesse che offre. Evidentemente la gente non capisce oppure sorvola sugli inguaribili mali del mondo e preferisce per il presente la ricetta semplice della Lega. Che si presentò trent’anni fa con un manifesto che diceva: «Roma ladrona». Quello slogan continua a ripeterlo, anche se a Roma ormai ci sguazza. Slogan, risposte facili, legame con il territorio sono i condimenti del successo leghista. Mettiamoci le facce nuove, magari le capacità teatrali (anche di Zaia che improvvisa comizi in dialetto sui covoni di fieno), magari il vantato, ossessivo, attaccamento alla terra. Poi è tutta un’altra storia: conta una geografia del potere e del sottopotere che gradualmente s’è diffusa e che crea il “radicamento” che conta. Adesso si aspetta la scalata alle fondazioni bancarie. Questo il quadro, rapidamente. Sulle ragioni si potrebbe discutere ed elencare di conseguenza, dalla crisi della società industriale, che ha tolto di mezzo la grande organizzazione operaia (vedi la condizione dello storico triangolo Milano-Torino-Genova), sostituendola con il lavoro parcellizzato, al declino delle forme tradizionali della politica, dal degrado culturale tra crisi della scuola e invadenza televisiva (conta di più il grande fratello di Minzolini) all’antica malattia di un paese diviso tra nord e sud, tra periferia (in questo caso ricca) e centro. Il federalismo è una favola, ma intanto gridare ai quattro venti «federalismo fiscale» aiuta. Osserva uno storico dell’Economia, Giulio Sapelli: «In una stagione di crisi economica, l’operaio senza lavoro vede i propri figli senza speranze se non in un lavoro precario. E allora abbandona chi ha voluto la legge Treu sul precariato, chi ha sostenuto la legge Biagi, chi difende scorciatoie verso i licenziamenti con la scusa che favorirebbero le assunzioni». Se metà dell’elettorato se n’è andato al mare invece di votare, mentre i partiti discutono di presidenzialismo alla francese (e magari è la metà dell’elettorato che più nel passato ha fatto politica o che sarebbe più disponibile a farla), c’è proprio al Nord una società viva, fatta di gruppi, associazioni, minoranze che si assommano, che fa a proprio modo rete e politica e che è disposta ad impegnarsi di nuovo, se le si presenta un progetto credibile...
In rete si troavano davvero tanti commenti su quanto avvenuto a Mantova. Segno che qualcos di particolarmente grave ha colpito l'immaginario collettivo democratico. Qui di seguito ne pubblichiamo un altro (oltre a quello di ieri) tanto per dare un'idea.
Mi permetto di rettificare, da Mantova, punto per punto tutte le osservazioni di Claudio da Moglia (il post riportato ieri, n.d.r.). La Brioni ha commesso grossi errori, non ultimi quelli di comunicazione, ma imputare a lei l'intera colpa della sconfitta è quantomeno ingeneroso. Diciamo che è stato un bel gioco di squadra dell'intero centrosinistra. Era quasi un anno che la Brioni chiedeva a gran voce le primarie, mentre i suoi nemici (all'interno del PD mantovano la parola giusta è appunto "nemici") hanno cercato in tutti modi di evitarle. E in effetti una volta falliti nel tentativo di scalzarla, si sono fatti trascinare (appunto di malavoglia) alle primarie. E come D'Alema ed il suo avatar in Puglia sono stati puntualmente sconfitti. Insomma tramaccioni "ma anche" incompetenti. Dopo la sconfitta alle primarie "i ribelli" se ne sono andati, sparpagliandosi nella lista dell'ex ras DC Zaniboni, alleato con l'Udc, e in quella del Pdl, lasciando dietro di loro terra bruciata e un'immagine desolante di guerra per bande. La Brioni ha provato a fare pulizia in casa, sbagliando probabilmente modi e tempi, e senza avere le risorse per affrontare questa battaglia. E ha passato l'immagine, a dire il vero abbastanza veritiera, di una donna sola e arroccata, circondata da pochi fedelissimi pretoriani. La peggior campagna elettorale a memoria d'uomo (un vero sproposito comunicativo, con comizio di D'Alema annesso) ha fatto il resto, consegnando la città alla destra locale: un'accozzaglia di freak leghisti, vecchi parrucconi perdenti di innumerevoli battaglie, voltagabbana di vecchia data e qualche esimio rappresentante della Mantova bene, il tutto guidato da un architetto amico di Bondi, sconosciuto al di fuori del suo nucleo familiare soltanto un paio di mesi fa. Altro che radicamento leghista...

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