lunedì 2 novembre 2009

CREDITO ALLE IMPRESE: PERCHÉ IL PIATTO PIANGE


di Marco Onado 27.10.2009


Il credito al settore produttivo è una risorsa assai scarsa in tutti i paesi, ma in Italia rischia di creare problemi ancora più gravi perché un tessuto di imprese medie e piccole non ha vere alternative ai canali tradizionali. Ma il credito alle imprese non tornerà ad affluire fino a quando le nuove regole non riusciranno a colmare l'attuale abisso di convenienza fra l'attività finanziaria sui titoli e la concessione di credito. Più si aspetta a vararle, più il problema diventa difficile da risolvere perché aumenta la forza contrattuale delle banche rispetto alla politica.

Il credito al settore produttivo è divenuto una risorsa terribilmente scarsa in tutti i paesi, ma in Italia rischia di creare problemi ancora più gravi perché un tessuto di imprese medie e piccole non ha altre vere alternative rispetto ai canali tradizionali. Invocare, come fa qualcuno, lo sviluppo di nuove forme di finanziamento (normalmente basate sul mercato di borsa) è una fuga in avanti, perché simili innovazioni strutturali richiedono tempi che non sono compatibili con l’urgenza dei problemi: non è molto diverso dal suggerimento di Maria Antonietta di dare brioches al popolo affamato. Ancora più pericolosa, è la deriva verso forme di controllo amministrativo che ci riporterebbero al concetto di “credito come pubblico servizio” che ha determinato danni incalcolabili in Italia, a cominciare dal dissesto dell’intero sistema bancario meridionale negli anni Novanta.


LA STRETTA CONTINUA
Il problema è comunque grave, si presenta in tutti i principali paesi ed è destinato a perdurare almeno fino al 2010. Ce lo dice in modo molto chiaro l’ultimo Global Financial Stability Report del Fondo monetario internazionale. Il rapporto mette in evidenza che la contrazione del credito alle imprese a livello mondiale è violenta (assai meno in Italia, come vedremo) ma in paesi come il Regno Unito ha raggiunto addirittura il -7,9 per cento. L’"asfissia finanziaria" di cui aveva parlato Mario Draghi nelle sue Considerazioni finali di fine maggio, in alcuni paesi non solo è drammatica, ma non si sta affatto allentando. Il rapporto contiene anche un interessante esercizio econometrico, che stima la domanda futura di credito delle imprese e l’offerta relativa, in base alle condizioni attuali delle banche. Il risultato per il 2009 è un financing gap (cioè un eccesso di domanda rispetto all’offerta) di 460 miliardi di dollari per l’area dell’euro (grosso modo uguale a quello stimato per gli Stati Uniti) cui va aggiunto un impressionante 150 miliardi per il Regno Unito. Per il 2010 le stime non sono migliori: 240 miliardi per l’area dell’euro, ancora 150 per il Regno Unito e 90 miliardi per gli Stati Uniti. Rispetto al Pil, si tratta di cifre notevoli: per il biennio 2009-2010, 3 per cento per Eurolandia; 2,4 per gli Stati Uniti e addirittura 15 per cento per il Regno Unito. Naturalmente, si tratta di un dato ex ante, frutto di un puro esercizio econometrico, ma è più che sufficiente per indicare che il credit crunch è un problema ancora presente e che rischia di protrarsi nel tempo ben più del temuto. Secondo il Fondo, la causa fondamentale della carenza di offerta di credito va individuata nelle condizioni patrimoniali delle banche. In sintesi, si osserva che c’è stato un significativo rafforzamento del capitale (prima con aiuti pubblici, poi con operazioni di mercato), ma sui bilanci bancari incombono non una, bensì due spade di Damocle: le perdite non ancora registrate dei titoli “tossici” e le perdite sui crediti che diventeranno inesigibili per effetto della crisi. Le perdite totali sono stimate in circa 2.800 miliardi di dollari, su livelli analoghi alla stima di aprile, mentre quella complessiva si contrae da 4.000 miliardi a 3.400. Questa differenza dimostra che la componente relativa ai crediti normali sta crescendo in modo significativo e che il problema delle banche oggi non è più solo quello di smaltire gli eccessi della finanza speculativa, ma di fronteggiare il deterioramento del portafoglio crediti tradizionali dovuto alla grave caduta dell’attività produttiva e, in alcuni comparti come l’immobiliare commerciale, allo sgonfiamento della bolla del passato.Il risultato netto è che a livello mondiale, i pur elevati profitti bancari previsti per i prossimi diciotto mesi risultano significativamente inferiori alle perdite che dovrebbero emergere: il capitale verrà quindi intaccato per 110 miliardi di dollari negli Stati Uniti (più o meno la cifra raccolta da quelle banche dopo il famoso stress test); per altrettanti in Eurolandia; per 30 nel Regno Unito e per 60 nei paesi scandinavi, di cui si parla meno ma che non navigano in buone acque. Come afferma testualmente il rapporto, le banche di tutti i paesi hanno sì raggiunto un apprezzabile livello di stabilità (e, va aggiunto, ci mancherebbe altro, con tutti i sussidi a vario titolo che hanno ricevuto), ma “abbiamo di fronte ulteriori pressioni”, “dovrà proseguire il processo di ricostituzione del capitale” e “le banche con dotazione di capitale più forti e strutture di raccolta più stabili saranno in grado di offrire prestiti quando comincerà la ripresa dell’attività produttiva”. La situazione in Italia è, si è detto, migliore rispetto ad altri paesi dell’area dell’euro, ma ciò non giustifica un ottimismo incondizionato. La caduta del credito è certo meno grave: a luglio si registrava ancora un +4,1 per cento rispetto a luglio 2008, ma allora il credito cresceva ancora a un tasso annuale del 17,3 per cento. La frenata è dunque molto forte rispetto allo scenario precedente e non c’è da stupirsi che in certi settori e per certe categorie di imprese, il credit crunch possa assumere contorni non migliori di quelli che si registrano in altri paesi europei.


LA LINEA DA NON SUPERARE
Il paradosso è che, da un punto di vista strettamente imprenditoriale (l’unico che conta nella logica di mercato con cui vogliamo continuare a ragionare) è razionale che le banche siano più prudenti di prima nel concedere credito o che lo facciano a tassi superiori: si badi che sul mercato internazionale lo spread dei titoli emessi dalle imprese sono doppi rispetto al periodo pre-crisi e qui le “perfide e avide” banche non c’entrano. Ed è razionale, ma assai fastidioso, che tutta la liquidità immessa nel sistema finisca per alimentare le operazioni finanziarie: il portafoglio titoli è cresciuto in Italia del 44 per cento, mentre le grandi banche mondiali hanno ripreso alla grande le operazioni sulla finanza speculativa.È dunque comprensibile che ovunque si stiano cercando strumenti, anche eccezionali, per assicurare a famiglie e imprese le risorse necessarie: dagli impegni assunti dalle banche che hanno ricevuto sussidi statali a non far diminuire la consistenza del credito a famiglie e imprese, ai “protocolli di intenti” firmati dalle banche, alle iniziative di vario tipo previste dal governo italiano, come gli osservatori dei prefetti; la moratoria dei crediti; gli impegni collegati ai Tremonti bond. C’è tuttavia una linea di principio che non deve essere varcata: quello dell’ingerenza amministrativa nell’allocazione del credito, che è e deve rimanere esclusiva competenza, e responsabilità, della libertà imprenditoriale della banca. È stata una grande conquista della riforma conclusasi nel 1993 con l’emanazione del Testo unico bancario e neppure la crisi finanziaria può offrire motivi sufficienti per tornare indietro. Come ha affermato Mario Draghi fin dal marzo scorso in un’audizione parlamentare “è essenziale che l’analisi delle condizioni del credito a livello locale non sconfini in un ruolo di pressione sulle banche che spinga ad allentare il rispetto di criteri di sana e prudente gestione nella selezione della clientela. Ritengo che debbano essere evitate interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi. Il credito è e deve restare attività imprenditoriale, basata su un prudente apprezzamento professionale della validità dei progetti aziendali”. Draghi ha anche indicato la possibilità di usare le garanzie pubbliche come misura di policy utile a risolvere il problema del credit crunch. La proposta appare oltre che interessante sul piano tecnico, anche equa dal punto di vista politico. Come il sistema bancario mondiale è stato salvato dal disastro perché i governi sono prontamente intervenuti con ogni possibile forma di sostegno, compreso garanzie in bianco alle passività delle banche, così oggi è opportuno adottare misure a sostegno dell’attività produttiva.È possibile, come suggerito dal governatore e dal presidente di Confindustria pensare a garanzie pubbliche che servano a far partire una securitisation “virtuosa” a favore delle piccole e medie imprese. Le banche dovrebbero ovviamente tenere nei loro portafogli una quota mantenendo così l’incentivo a selezionare prenditori meritevoli e fornendo una garanzia implicita al mercato. Sui titoli senior, cioè quelli con il rating più alto, potrebbe essere prevista una garanzia pubblica (per questa, nella proposta di Draghi la banca dovrebbe corrispondere una remunerazione commisurata alla qualità dei crediti sottostanti). Limitando la garanzia pubblica alla quota meno rischiosa del pool dei prestiti cartolarizzati si evita – ribadisce Draghi – di addossare allo Stato un ruolo inappropriato nella valutazione del merito di credito. Se le banche sono in grado di collocare parte dei propri crediti su un mercato secondario attivo e liquido, possono utilizzare la liquidità ottenuta per riattivare l’offerta di credito.Insomma, il credito alle imprese non tornerà ad affluire fino a quando le nuove regole non riusciranno a colmare l’abisso di convenienza che adesso esiste fra l’attività finanziaria sui titoli e la concessione di credito alle imprese e fintanto che le ferite profonde del sistema bancario internazionale non saranno rimarginate. Più si aspetta a varare queste regole, più il problema diventa difficile da risolvere perché aumenta la forza contrattuale delle banche rispetto alla politica. Tutti i politici hanno usato nei giorni scorsi parole di fuoco nei confronti dei banchieri, accusandoli di un’autentica degenerazione verso la speculazione. Ma questa degenerazione è un frutto di un quadro normativo che deve essere cambiato. Timothy Geithner ha affermato che le regole le scrivono i politici, non i banchieri. È ora di passare dalle parole ai fatti. Altrimenti i politici fanno la figura di Woody Allen in questo dialogo di “La dea dell’amore”: “Papà, chi comanda fra te e la mamma?” “Chi comanda? E me lo devi chiedere? Io comando. La mamma prende solo le decisioni. C’è una grande differenza: lei dice quello che dobbiamo fare, ma io ho il telecomando quando guardiamo la Tv”.


Da lavoce.info

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