domenica 21 giugno 2009

In morte di Ralf Dahrendorf



Il 18 giugno, giovedi' scorso, è morto Ralf Gustav Dahrendorf. Aveva appena compiuto ottant’anni. In realtà è morto all’età che lui ha sempre sentito di avere, 28 anni. Lo ha scritto nella sua autobiografia, “Oltre le frontiere”, uscita nel 2004 per Laterza, il suo editore italiano. Ventotto anni, come diceva Ingeborg Bachmann, la sua scrittrice preferita, è quell’età di passaggio in cui un uomo finisce di vivere alla giornata e si rende conto che delle mille e una possibilità che la vita sicuramente gli avrebbe offerto, “forse mille sono già sfumate e perdute”. Era il 1957 quando l’uomo che sarà definito filosofo, sociologo, giornalista, storico, economista, o – definizione sua mutuata da Goethe – figlio del mondo, era all’inizio di una promettente carriera accademica, aveva il passaporto già pieno di visti e giocava a poker perdendo regolarmente con gente come Milton Friedman e George Stigler.
Da allora il suo curriculum accademico, scientifico e politico è stato impressionante: professore di sociologia ad Amburgo, Tubinga e Costanza. Membro del parlamento tedesco per il Freie Demokratische Partei, i liberali tedeschi, funzionario al ministero degli Esteri, membro ipercritico della Commissione europea, direttore della London School of Economics, nominato Lord da Elisabetta Seconda. L’ultimo lavoro, docente di Teoria politica e sociale presso il Wissenschaftzentrum für Sozialforschung di Berlino.
Ma essere un ventottenne in quell’accezione che Dahrendorf si porterà dietro per il resto della sua vita significa concentrarsi su quell’unica possibilità rimasta verso la quale indirizzare la propria vita. Nel suo caso lavorare su un’ossessione, la democrazia. La democrazia vista da un liberale, quella delle pari opportunità di partenza, non di arrivo. La democrazia lucida della gestione dei poteri. Il potere, l’altra ossessione di Dahrendorf. Come regolare, trattenere e domare il Leviatano attraverso la partecipazione dei cittadini informati ed educati civicamente. Come prevedere i conflitti tra le classi e i poteri senza abdicare alla scorciatoia del totalitarismo o del regime. Come consentire una riforma del capitalismo pur sapendo della sua tendenza onnivora.
Studiava il potere con lucidità e nello stesso tempo aveva una speranza da antico umanista negli strumenti della politica e delle scienze sociali. Si diceva erasmiano, credeva nella più lucida delle follie, che gli uomini potessero essere migliori. Aveva detto in un’intervista: “Credo molto al common sense, alla capacità di fondo di ogni singolo uomo di formulare giudizi su questioni politiche importanti. Ma in un mondo complicato, questa capacità esige, ad esempio, che si sia in grado di leggere un giornale, e che lo si legga realmente; esige che si sia in grado di ascoltare e comprendere notiziari, e qui è ancora una volta necessario un certo grado di preparazione, di istruzione”. La complessità era il dominio di Dahrendorf, tutto l’opposto della banalità delle soluzioni che la politica propone nei tempi della crisi e della sterilizzazione della partecipazione.
Nelle ultime pagine della sua biografia racconta di quando lui e un amico andarono da un astrologo che esercitava in un’arcata sotto la ferrovia di Amburgo. All’amico l’astrologo disse che avrebbe passato dei guai a causa di una donna bruna. L’amico lasciò la bellissima moglie dai capelli scuri. Quello che disse a lui, Dahrendorf non lo ricorda. Una cosa vaga, una cosa che aveva a che fare con la mediazione, il mestiere di fare incontrare posizioni inconciliabili. Aveva ventun anni. Quella profezia non gli diceva nulla. A ventotto probabimente l’aveva scordata. Mezzo secolo dopo Dahrendorf riuscì a interpretarla. Era un uomo di confine, stava tra le frontiere. Geografiche e politiche. Tra democrazia e potere. Tra le mille e una possibilità e l’unica rimasta. Come un ventottenne.

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