La riflessione, con nostro sommo gaudio, si fà sempre piu' alta tra i nostri columnist di punta.
Alberto Rossini trae spunto dall'ultimo intervento di Gilberto Mangianti e allaga ulteriormente il campo del confronto.
Gilberto Mangianti, riprendendo alcune considerazioni sul pensiero della complessità, riflette sul rapporto tra cultura e politica affermando che vi deve essere uno spazio di reciproca autonomia per l’uno e l’altro.
Condivido, tuttavia mi pare che ci sia dell’altro. Però prima voglio sottolineare la peculiarità di uno spazio che nel mezzo della campagna elettorale trova la voglia di pubblicare riflessioni di questo tipo. Sarebbe interessante capire come vengono percepite. Fuga dalla realtà ? O tentativo di trovare le ragioni del fare politica?
Che rapporto c’è tra cultura e politica? A prima vista si direbbe che la politica è l’affermazione dell’agire, del prendere decisioni che muovono da interessi diversi, talvolta contrapposti. La politica, intesa come governo della cosa pubblica, deve essere in grado di rappresentare e di mediare. La politica nasce sul terreno del confronto di soggetti che sono portatori di interessi antagonisti che si organizzano per ottenere una propria legittima rappresentanza che può diventare nel tempo forza di governo.
Al contrario la cultura, in modo consequenziale a quanto appena espresso, è il tentativo più distaccato di pensare e di interpretare la realtà. Una forma più mediata di guardare al mondo. Eppure se appena scaviamo sotto la semplice apparenza sentiamo, quasi istintivamente, che non è proprio così. Avvertiamo che in ogni discussione politica in realtà si fa riferimento ad una serie di posizioni, di spiegazioni culturali, che sono il tentativo di argomentare la scelta politica. Insomma la decisione politica cerca di trovare ragioni culturali che la rafforzino e la giustifichino. Del resto lo sapevano bene gli ateniesi che si affidavano alla retorica per convincere i cittadini nella piazza, trovando motivazioni e argomentazioni filosofiche alle differenti posizioni politiche.
Lo sappiamo bene anche noi, poiché ogni dibattito sulle decisioni da prendere vede schierati schiere di esperti a difesa di questa o quella posizione. Si tratti di dover decidere delle centrali nucleari, o del “fine vita”, dell’utilità del reddito minimo garantito o del sistema elettorale da adottare, sappiamo che si possono ascoltare tesi diverse, ognuna fondata su posizioni culturali antitetiche. Qualche tempo fa le avremmo chiamate “ideologie”, oggi il termine è fuori moda e parlare di ideologie, o visioni del mondo, fa quasi paura. Non credo, però, che la sostanza della cosa sia molto diversa.
Dopo un lungo periodo in cui il fenomeno Berlusconi è apparso a gran parte della sinistra quasi incomprensibile, oggi si riconosce che trae la sua forza da un modello culturale che nel tempo si è andato affermando fino al punto di divenire cultura prevalente, di fondare un’egemonia culturale che ora comprendiamo come sia difficile scalfire. Allora dovremmo chiederci come è nato quel modo di pensare, come è potuto accadere che diventasse la chiave di lettura della realtà. Da cosa è stato prodotto?
Nasce da un interesse, da una volontà, da un bisogno o se volete da un istinto. Non sto banalmente dicendo che dietro quel modello culturale vi fosse un interesse immediatamente economico o l’espressione diretta e programmata di un gruppo sociale. Voglio dire che Berlusconi manifesta un potere che si fonda su una certa forma di sapere. Ritengo che tra la politica che decide e la cultura che cerca di capire la realtà non esiste uno scarto netto, al contrario l’una e l’altra vivono di rimandi continui. Il potere politico cerca di trovare il proprio fondamento nella cultura, nella forma di sapere più congeniale, che a sua volta dalle decisioni della politica trae nuova forza e legittimazione.
Non è ovviamente una tesi nuova. Ciò che vorrei evidenziare è che non si tratta di un condizionamento del potere sul sapere, ma del fatto che il sapere stesso produce potere o meglio ancora, poteri che agiscono e si diffondono nel sociale. Il sapere è potere, caso mai si tratta di capire come si dispiega e si articola. Dobbiamo dimenticare l’idea del potere che “proibisce” e che nega.
"Il potere è una macchina che genera effetti. Il potere ha un carattere affermativo capace di produrre saperi, verità sociali, effetti pratici sulle nostre vite" (Michel Foucault).
Non esiste, è questa la tesi che intendo sostenere, una distinzione tra conoscenza e quindi mondo della cultura da una parte e interesse, e quindi mondo dell’agire politico, dall’altra. Esiste invece una connessione diretta tra le due cose. E’ l’interesse che genera conoscenza ed è sempre l’interesse che muove la politica, ovvero la forma con cui si manifesta il governo sul mondo.
Il sapere è inscindibile dal potere e si generano a vicenda. La stessa cosa vale per la verità, che non è fuori dal potere, né senza potere. La verità è il risultato di uno scontro tra interessi diversi. Così come l’egemonia politica è il risultato di uno scontro da attori sociali che rappresentano interessi differenti. Dimenticare o semplicemente trascurare questa “verità effettuale” mi pare che renda molto più debole la sinistra, per continuare ad usare questa espressione. La rende più debole perché toglie spazio alla rivendicazione di un pensiero della differenza, all’ambizione di costruire un progetto alternativo all’attuale stato delle cose, ostacola il “maggiore impegno per comprendere gli sviluppi complessi e contraddittori dell’Italia di oggi”. Abbiamo invece bisogno, come scrive Marc Lazar di “più audacia nell’elaborare proposte per venire incontro ai giovani, alle donne, ai lavoratori del settore privato, ai precari, agli immigrati”.
Insomma ci sono differenze di pensiero, di proposte politiche, di pratiche sociali, e di desideri individuali che non possono essere annullate o inglobate in una sorta di pensiero unico che vuole nascondere i conflitti sociali e gli interessi economici contrapposti che né la globalizzazione, né il predominio della tecnica e neppure la pervasiva spettacolarizzazione del mondo, può impunemente e facilmente cancellare. Così spero.
Che rapporto c’è tra cultura e politica? A prima vista si direbbe che la politica è l’affermazione dell’agire, del prendere decisioni che muovono da interessi diversi, talvolta contrapposti. La politica, intesa come governo della cosa pubblica, deve essere in grado di rappresentare e di mediare. La politica nasce sul terreno del confronto di soggetti che sono portatori di interessi antagonisti che si organizzano per ottenere una propria legittima rappresentanza che può diventare nel tempo forza di governo.
Al contrario la cultura, in modo consequenziale a quanto appena espresso, è il tentativo più distaccato di pensare e di interpretare la realtà. Una forma più mediata di guardare al mondo. Eppure se appena scaviamo sotto la semplice apparenza sentiamo, quasi istintivamente, che non è proprio così. Avvertiamo che in ogni discussione politica in realtà si fa riferimento ad una serie di posizioni, di spiegazioni culturali, che sono il tentativo di argomentare la scelta politica. Insomma la decisione politica cerca di trovare ragioni culturali che la rafforzino e la giustifichino. Del resto lo sapevano bene gli ateniesi che si affidavano alla retorica per convincere i cittadini nella piazza, trovando motivazioni e argomentazioni filosofiche alle differenti posizioni politiche.
Lo sappiamo bene anche noi, poiché ogni dibattito sulle decisioni da prendere vede schierati schiere di esperti a difesa di questa o quella posizione. Si tratti di dover decidere delle centrali nucleari, o del “fine vita”, dell’utilità del reddito minimo garantito o del sistema elettorale da adottare, sappiamo che si possono ascoltare tesi diverse, ognuna fondata su posizioni culturali antitetiche. Qualche tempo fa le avremmo chiamate “ideologie”, oggi il termine è fuori moda e parlare di ideologie, o visioni del mondo, fa quasi paura. Non credo, però, che la sostanza della cosa sia molto diversa.
Dopo un lungo periodo in cui il fenomeno Berlusconi è apparso a gran parte della sinistra quasi incomprensibile, oggi si riconosce che trae la sua forza da un modello culturale che nel tempo si è andato affermando fino al punto di divenire cultura prevalente, di fondare un’egemonia culturale che ora comprendiamo come sia difficile scalfire. Allora dovremmo chiederci come è nato quel modo di pensare, come è potuto accadere che diventasse la chiave di lettura della realtà. Da cosa è stato prodotto?
Nasce da un interesse, da una volontà, da un bisogno o se volete da un istinto. Non sto banalmente dicendo che dietro quel modello culturale vi fosse un interesse immediatamente economico o l’espressione diretta e programmata di un gruppo sociale. Voglio dire che Berlusconi manifesta un potere che si fonda su una certa forma di sapere. Ritengo che tra la politica che decide e la cultura che cerca di capire la realtà non esiste uno scarto netto, al contrario l’una e l’altra vivono di rimandi continui. Il potere politico cerca di trovare il proprio fondamento nella cultura, nella forma di sapere più congeniale, che a sua volta dalle decisioni della politica trae nuova forza e legittimazione.
Non è ovviamente una tesi nuova. Ciò che vorrei evidenziare è che non si tratta di un condizionamento del potere sul sapere, ma del fatto che il sapere stesso produce potere o meglio ancora, poteri che agiscono e si diffondono nel sociale. Il sapere è potere, caso mai si tratta di capire come si dispiega e si articola. Dobbiamo dimenticare l’idea del potere che “proibisce” e che nega.
"Il potere è una macchina che genera effetti. Il potere ha un carattere affermativo capace di produrre saperi, verità sociali, effetti pratici sulle nostre vite" (Michel Foucault).
Non esiste, è questa la tesi che intendo sostenere, una distinzione tra conoscenza e quindi mondo della cultura da una parte e interesse, e quindi mondo dell’agire politico, dall’altra. Esiste invece una connessione diretta tra le due cose. E’ l’interesse che genera conoscenza ed è sempre l’interesse che muove la politica, ovvero la forma con cui si manifesta il governo sul mondo.
Il sapere è inscindibile dal potere e si generano a vicenda. La stessa cosa vale per la verità, che non è fuori dal potere, né senza potere. La verità è il risultato di uno scontro tra interessi diversi. Così come l’egemonia politica è il risultato di uno scontro da attori sociali che rappresentano interessi differenti. Dimenticare o semplicemente trascurare questa “verità effettuale” mi pare che renda molto più debole la sinistra, per continuare ad usare questa espressione. La rende più debole perché toglie spazio alla rivendicazione di un pensiero della differenza, all’ambizione di costruire un progetto alternativo all’attuale stato delle cose, ostacola il “maggiore impegno per comprendere gli sviluppi complessi e contraddittori dell’Italia di oggi”. Abbiamo invece bisogno, come scrive Marc Lazar di “più audacia nell’elaborare proposte per venire incontro ai giovani, alle donne, ai lavoratori del settore privato, ai precari, agli immigrati”.
Insomma ci sono differenze di pensiero, di proposte politiche, di pratiche sociali, e di desideri individuali che non possono essere annullate o inglobate in una sorta di pensiero unico che vuole nascondere i conflitti sociali e gli interessi economici contrapposti che né la globalizzazione, né il predominio della tecnica e neppure la pervasiva spettacolarizzazione del mondo, può impunemente e facilmente cancellare. Così spero.
Alberto Rossini, 29-04-09
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