martedì 28 luglio 2009

La coscienza di un liberal


Mi permetto di segnalare una bella lettura estiva (magari non proprio di evasione, ma scritta in modo scorrevole e farcita di esempi). Si tratta del libro di Paul Krugman (nobel 2008 per l’economia) “La coscienza di un liberal”. Va detto che si tratta di un libro di un autore americano incentrato sulla realtà americana, ma proprio perché americano-centrico sorprende per l’universalità dei concetti.
Sopra a tutto domina il concetto per cui si rivendica la primato della politica sull’economia. Ormai da molti anni siamo abituati a pensare che, vuoi per il pandemico dilagare del concetto di globalizzazione, vuoi per il supino sposare la causa di un certo liberismo da salotto da parte di tutte le parti politiche (quello per cui si privatizzano gli utili, ma si collettivizzano le perdite…), vuoi per semplice pigrizia, la politica sia in crisi. E che sia stata messa in crisi proprio dall’economia. Soprattutto nei periodi di crisi (Krugman si sofferma a lungo sul New Deal e il passaggio agli anni del dopo guerra) si sostiene che l’intervento dello stato sia l’unico in grado di arginare il fenomeno della sperequazione economica tra i diversi ceti della società. In particolare, l’estensione (o addirittura “l’invenzione”) della classe media non è un prodotto di una graduale e generalizzata crescita economica, ma il frutto dell’applicazione di precise politiche fiscali, retributive e sociali. La centralità della classe media nella vita democratica degli stati occidentali così come la conosciamo noi, viene a crearsi perché larghi strati di società hanno presentano disparità di reddito che mai erano state più ridotte (e mai più, almeno fino a oggi, lo saranno). Se è vero che grande peso in questo panorama lo hanno avuto, negli Stati Uniti come in Italia, le organizzazioni sindacali (per altro fortemente diverse a seconda del paese) che, in un contesto fortemente industriale-manifatturiero, hanno applicato un modello di contrattazione di grande efficacia, è altrettanto vero che senza un referente politico forte, tali rivendicazioni non si sarebbero tradotte in tangibili condizioni sociali (come era successo fino alla seconda guerra mondiale). I partiti di ispirazione marxista (ma non solo) in Europa e il Partito Democratico negli Stati Uniti hanno svolto, in forme molto diverse, questo ruolo.
Le similitudini tra gli Anni venti (anni di crisi ai quali si fece fronte con il New Deal) e oggi sono lampanti in termini di ripartizione del reddito. Il cosiddetto “allargamento della forbice” tra ricchi e poveri è assolutamente simile (riporto da pag.15):

Media Anni ‘20 10% della popol. a più alto reddito 43,6%
Media Anni ‘20 1% della popol. a più alto reddito 17,3%
2005 10% della popl. a più alto reddito 44,3%
2005 1% della popol. a più alto reddito 17,4%

Oggi, come sostanzialmente allora, l’1% della popolazione possiede il 17,3% della ricchezza nazionale. La vera differenza per i ceti più deboli, tra gli anni ’20 e oggi, sono l’esistenza di programmi di previdenza sociale e pensionistici e (almeno in Europa) un sistema sanitario e scolastico garantiti.
Questi naturalmente sono dati americani e non italiani, ma la realtà è comunque la medesima: basti pensare come larghi strati delle famiglie italiane negli anni ’60 e ’70 erano monoreddito e di ceto operaio, ciononostante erano la maggioranza quelle che si concedevano periodi ragionevolmente lunghi di vacanze estive (e a Rimini lo si sa bene…). Cosa che oggi è davvero lontana dalla possibilità di molti.
(Riporto da pag 135): “Negli anni ’30 e ’40 (negli Stati uniti, in Europa nel dopo guerra) furono create istituzioni e stabilite norme che limitavano la disuguaglianza: a partire dagli ‘70 tali istituzioni e norme sono state smantellate, determinando l’aumento della disuguaglianza.”
Queste poche parole, tanto lapidarie da un lato quanto scontate dall’altro, segnano la via dei partiti che vogliano dirsi progressisti oggi. E la segnano soprattutto oggi che l’assenza di regole ha prestato il fianco alle derive di speculazione che hanno prodotto il crack finanziario ed economico attuale, la segnano oggi che l’evasione fiscale e il lavoro nero sono state elevate a vere proprie forme di assistenzialismo de-facto, la segnano oggi che il mercato del lavoro è precarizzato come mai. Ad esempio, c’è qualcuno in grado di dire quanti siano, se ce sono, quei posti di lavoro con contratti “atipici” che, regolarizzati, sparirebbero? In altre parole, quanta speculazione c’è sui contratti atipici e quanta effettiva necessità c’è di flessibilità, per così dire, estrema?Concludo notando come effettivamente lo scarto più grosso che i partiti progressisti devono fare oggi (in Italia come in tutta Europa) sia di carattere culturale. Ripensare il rapporto con l’economia dopo la sbornia neo-liberista non è tema da addetti ai lavori. Che sia finalmente un economista americano, come Krugman, a mettere in discussione un modello di governo economicista a favore della politica, la dice davvero lunga su quanto sia cambiato il clima culturale dall’elezione di Obama. Il libro si conclude con un quadro su quello che dovrà essere il punto cardine dell’amministrazione Obama, cioè l’istituzione dell’assistenza sanitaria garantita per tutti: ovvero proprio durante la peggiore crisi del dopo guerra, il governo democratico americano sta tentando una vera e propria rivoluzione in termini di intervento statale a scapito di quello privato, quando, qui da noi, i provvedimenti presi dal governo sono di segno diametralmente opposto (e anche nell’opposizione c’è un certo appiattimento su tali posizioni). E’vero che tra noi e gli Stati Uniti sono più le differenze che le similitudini, ma la via è senz’altro la stessa.

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