giovedì 7 maggio 2009

Chi ci ricorda?


Riportaiamo quanto qui di seguito, giusto per ricarare la dose, a proposito di quel "certo modo di fare politica" (o di guerra tra bande, che dir si voglia) che ha portato alle dimissioni del segretario comunale di Rimini nel bel mezzo della campagna elettorale.

Sia chiaro, la regola è più che sensata: alle elezioni si partecipa per tentare di prendere un voto in più dell’avversario, non per guadagnarsi una buona posizione in vista degli scenari post-elettorali. Capita raramente infatti che un dirigente di partito non si adegui a questa norma di comportamento: quando succede la cosa è estremamente preoccupante e lascia presagire incomprensioni ben più grandi di quelle che appaiono.

Qualcosa di simile succede in questi giorni, tutte le volte che Francesco Rutelli scarta di lato e si mette su posizioni diverse da quelle del resto della dirigenza. Il Pd? «Non è la sinistra». Al referendum votare sì, come indicano Franceschini e tutti i big del partito? «No, la vittoria del sì produrrebbe il Porcellissimum». Alleanze di nuovo conio? «Solo guardando al centro». In Europa insieme al Pse? «Abbiamo creato un partito per apparentarci con i socialisti europei in grave crisi?». Si potrebbe continuare, citando magari i continui smarcamenti in occasione delle discussioni parlamentari sui temi etici. Prendete tutte queste cose, unitele agli sperticati complimenti a Enrico Letta (salvo il consiglio di essere, appunto, «più risoluto»), aggiungete il palese avvicinamento in corso da diversi mesi dello stesso Letta verso l’Udc di Casini e otterrete un quadro abbastanza chiaro degli scenari che si profilano per il Pd.

Non è un mistero infatti che l’area centrista del partito sia da mesi particolarmente insofferente, stretta tra la sempiterna diffidenza degli ex-diessini e l’influenza sempre maggiore dei popolari. A questo si unisce l’impopolarità di Rutelli a seguito della sconfitta a Roma, l’impatto delle vicende giudiziarie che lo hanno toccato negli scorsi mesi, l’assottigliarsi del numero degli alleati dentro il partito e l’inedito cono d’ombra mediatico in cui è finito, malgrado l’importanza dell’incarico istituzionale che ricopre.
La fibrillazione è destinata a crescere almeno fino al giorno del voto: la strategia comunicativa e politica di Franceschini è evidentemente volta al recupero dei voti persi a sinistra piuttosto che il tentativo di sfondare al centro, e si può ragionevolmente prevedere che col passare dei giorni i toni del segretario del Pd si faranno sempre più alti e intransigenti. Altro che «antiberlusconismo da mettere da parte», come vorrebbe Rutelli. Il paradosso poi è che tutti fanno buon viso a cattivo gioco, ma in mancanza di una linea politica, nessuno è davvero soddisfatto. Per i garantisti il Pd è troppo giustizialista, per i giustizialisti il Pd è troppo garantista; per la sinistra il Pd è troppo democristiano, per i democristiani è troppo di sinistra; per i laici è troppo clericale, per i clericali è troppo laicista, eccetera. Tutti problemi i cui effetti devastanti sono alla base del crollo verticale dei consensi del Pd, e che oggi sono stati solo temporaneamente riposti sotto il tappeto in virtù della norma di cui sopra: durante la campagna elettorale si fa campagna elettorale.

I due appuntamenti elettorali di giugno rappresentano di fatto lo snodo centrale di queste e di altre questioni. Il risultato del Pd alle elezioni europee determinerà i paletti della discussione congressuale, a cominciare dall’eventualità di rinviare le assise per continuare con le candidature alla segreteria, le diverse mozioni congressuali, le posizioni, le alleanze, i progetti. L’esito dei referendum elettorali, invece, disegnerà il terreno istituzionale sul quale si gioca la partita: in caso di vittoria del sì il terremoto politico sarebbe tale da rendere estremamente complicato fare previsioni. Una sola cosa è certa: comunque vadano queste due consultazioni, ci aspetta un’estate di interviste colme di frasi a mezza bocca, allusioni, messaggi traversali e supercazzole d’ogni tipo. D’altra parte la campagna elettorale sarà bella che finita: liberi tutti, di nuovo.

Liberamente tratto da un post di Francesco Costa

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