giovedì 23 settembre 2010

Barbaricco


Da Repubblica del 22 settembre 2010

di Piergiorgio Odifreddi

Repubblica ha pubblicato ieri un interessante scambio fra Alessandro Baricco ed Eugenio Scalfari. Lo scrittore ha analizzato Il mondo senza nome dei nuovi barbari, e il giornalista gli ha risposto issando La bandiera di Ulisse per il futuro.

Riassumendo, Baricco ritiene di vedere «il tramonto di una civiltà e, forse, la nascita di un’altra». E dice che quando pensa ai barbari pensa a «gente come Larry Page e Sergey Brin (i due inventori di Google: avevano vent’anni e non avevano mai letto Flaubert) o Steve Jobs (tutto il mondo Apple e la tecnologia touch, tipicamente infantile) o Jimmy Wales (fondatore di Wikipedia, l’enciclopedia on line che ha ufficializzato il primato della velocità sull’esattezza)». Viceversa, quando pensa agli imbarbariti pensa «alle folle che riempiono i centri commerciali e il pubblico dei reality show».
A scanso di equivoci, per Baricco i barbari sono i portatori di un mondo nuovo, ovviamente contrapposto a quello vecchio degli imbarbariti. Gli esempi del passato che egli cita sono, tanto per intenderci, Diderot e D’Alembert a fronte degli aristocratici, e Mozart a fronte delle signorine di buona famiglia che strimpellavano Salieri. Secondo Baricco, ciò che rende barbari i barbari, è semplicemente «il non fare uso di strumenti che vengono dalla tradizione e il fondare il ragionare su principi affatto nuovi».
Quanto ai suoi esempi di barbari del presente, essi mostrano che ciò che l’affascina da un lato, e lo rende perplesso dall’altro, è il mondo dell’informazione e dell’informatica. Inevitabilmente, nell’analisi di Baricco risuonano i temi anticipati ormai quasi cinquant’anni fa da McLuhan, addirittura prima della nascita di Internet e del Web. McLuhan chiamava «selvaggi» quelli che Baricco chiama «barbari». E con la famosa metafora del villaggio globale, spesso fraintesa, intendeva appunto indicare che l’intero mondo stava diventando un grande villaggio tribale, appunto.
McLuhan sottolineava la contrapposizione tra i vecchi mezzi di informazione, basati sulla parola e sul discorso unidirezionale, e quelli nuovi, basati sull’immagine e sull’interattività bidirezionale. Per intenderci, i vecchi media erano sostanzialmente il libro e la radio, e quelli nuovi il giornale, la televisione e il computer. E anche i verbi che ne descrivono la fruizione mostrano la differenza: mentre il libro si legge e la radio si ascolta, il giornale si sfoglia, alla televisione si fa zapping e sul computer si naviga.
In fondo, senza capire questi nuovi media non si capisce niente del mondo moderno: l’accorciamento dell’intervallo di attenzione, la banalizzazione delle notizie, l’abbassamento dello standard delle discussioni, la semplificazione del messaggio politico, l’onnipotenza del messaggio pubblicitario (al quale si riferiva l’altro motto di McLuhan: «il medium è il messaggio»). Cioè, in ultima analisi, il berlusconesimo: il quale, a scanso di equivoci, non è affatto un’anomalia italiana, bensí soltanto la versione nostrana, ulteriormente imbarbarita, dell’imbarbarimento che negli Stati Uniti era appunto già evidente all’epoca di McLuhan, e la cui onda lunga oggi ha raggiunto anche noi.
Baricco riscopre alcune di queste analisi, e Scalfari si dichiara d’accordo con lui. Ma con due contraddizioni, mi sembra. Anzitutto, in quanto giornalista egli è un barbaro per lo scrittore, che infatti gliel’aveva anticipato. Inoltre, Scalfari cita, condividendola, l’affermazione del genetista Cavalli-Sforza, che «il senso come lo concepiscono i laici non credenti è conoscenza e responsabilità». Ma non si accorge che è proprio perchè Page e Brin erano indaffarati a creare tecnologia, e dunque conoscenza, che non avevano letto Flaubert!
A me sembra che gli umanisti non si rendano conto che buona parte della letteratura è solo divertimento e svago, appunto come i centri commerciali e i reality. Ora, lo svago è sacrosanto, ma se lo può permettere solo chi ha tempo da perdere. Non un Newton, ad esempio, che andò una sola volta a teatro, e scappò prima della fine. Non un Darwin, che trovava Shakespeare «cosí insopportabilmente pesante da trarne disgusto». Non i molti premi Nobel o medaglie Fields, che ho sentito con le mie orecchie affermare di non avere interesse a leggere «storie inventate». E non un barbaro impegnato a creare un nuovo mondo, come appunto sono quelli citati da Baricco.
E poi, più generalmente, non c’è forse il rischio che chi si abitua a sentir raccontare storie, alla fine diventi facile preda dei contastorie? L’esperienza, purtroppo, sembrerebbe proprio suggerire di sí.

Nessun commento:

Posta un commento