giovedì 28 gennaio 2010

Non una moda da seguire

di Alberto Rossini
La domanda impertinente di Prodi “ma chi comanda nel PD?” in maniera semplice ed un po’ provocatoria pone il problema nei suoi termini essenziali e senza fronzoli. E’ difficile rispondere, le scelte per le candidature qualche segnale però lo lanciano. In Puglia ha vinto Vendola che è passato, da vincitore, per le primarie contro Boccia proposto direttamente da Roma. Insomma ha vinto chi ha dimostrato di essere più radicato sul territorio e l’organizzazione centrale ha dimostrato di non avere il polso della situazione, di non essere in sintonia con i propri iscritti e simpatizzanti. Nel Lazio è candidata la Bonino che di fatto si è autoproclamata e il vertice del partito ha dato il via libera, sapendo che si parte da una oggettiva difficoltà, dopo lo scandalo Marrazzo. Quale idea di fondo c’è, però, alla base della candidatura Bonino? Difficile dirlo visto che il PD lancia a livello nazionale un’ipotesi di apertura al centro. Un ruolo non particolarmente adatto alla radicale Bonino. Una contraddizione abbastanza evidente.
A Venezia le primarie per il Comune le ha vinte Orsoni, sostenuto da Cacciari, non certo un fan del PD e sicuramente un non allineato. Insomma non un successo del PD ortodosso.
Infine nel Veneto il candidato, scelto senza primarie, è Bortolussi direttore della Confartigianato di Mestre (quella che è bravissima a studiare i dati sulle imprese) selezionato per contrastare Zaia. Anche qui il candidato del PD è uno non organico, uno fuori dagli schemi, votato dalla direzione regionale del partito a maggioranza.
Cosa dimostrano questi esempi? Da un lato la difficoltà ad applicare in tutte le situazioni lo stesso metodo. Ovvero le primarie non sono un imperativo categorico del PD. Mi pare che siano una possibilità che se si può si cerca di evitare. Spesso le primarie sono vinte non dal candidato ufficiale, ma dagli outsider più o meno autorevoli.
L’altro dato che emerge è che il PD a volte trova i candidati fuori dalle proprie file. Non c’è niente di male, soprattutto per chi ha la consapevolezza che deve allargare il proprio consenso elettorale, eppure non pare una scelta dalle solide fondamenta, sembra che avvenga un po’ per caso, senza una particolare riflessione preventiva. Altre volte emerge con chiarezza come il territorio faccia prevalere i propri interessi e la propria volontà rispetto a quanto vorrebbe l’organizzazione centrale.
Allora se le cose stanno così, ma certo la discussione andrebbe approfondita, il partito dovrebbe darsi fondarsi su una base federale in cui l’organizzazione centrale funge da coordinamento e da centro di elaborazione di idee e progetti, ma in cui le decisioni rispetto alle politiche locali le prende il livello territoriale più vicino o più competente rispetto al problema che si pone.
Era questa la proposta di alcuni esponenti del PD del nord (Cacciari, Chiamparino, Illy e altri) che però non è passata perché ritenuta pericolosa e possibile premessa di una divaricazione tra partito del nord e del sud. Ma se nei fatti le cose stanno già così e quando non si dà voce al territorio le cose vanno male, perché non cambiare. Del resto solo in questo modo i circoli, i livelli locali, avrebbero finalmente modo di contare di più. Di radicarsi sul territorio. Di proporre soluzioni innovative e diffondere buone pratiche.
Così una nuova classe dirigente potrebbe essere selezionata anche per aspirare ad un ruolo di livello nazionale, oggi spesso rappresentato da persone che sembrano non possano avere un ricambio. Questa potrebbe essere una forma partito che anticipa una diversa articolazione dello Stato. Un’anticipazione, non una moda da seguire. Da qui possono partire i ragionamenti rispetto alle visioni e agli obiettivi non banali da perseguire per convincere i cittadini e poi vincere il governo del territorio ai diversi livelli.

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