Sembra una cosa incredibile, ma capita d'estate, in questo momento dell'estate, che è un po' il cuore dell'estate, ad un passo dalle vacanze per chi ci va, nel weekend statisticamente più incasinato per traffico, partenze/arrivi: la sensazione che qualcosa si sia irrimediabilmente colmato, compiuto, riempito all'inverosimile. Da qui a settembre, con la ripresa dell'attività anche politica, sembra dividerci un'attesa lunghissima. Accanto al lento capitolare di un sistema politico che in poco più di 3 lustri ci ha deformato istituzioni e cultura, accanto a questo spiraglio che si apre, accanto alla gente sempre più sfinita, accanto a questa gente che riprende a organizzarsi - e per fortuna che lo fa - da sè (vedi referendum, vedi ballottaggi, vedi certe primarie come quelle di Milano), accanto a questo che siamo e che stiamo vivendo anche in questi giorni di pausa estiva (o meglio paura estiva: vedi la nuova crisi finanziaria e il temuto default USA - ormai più politico che economico -, vedi l'affossamento della legge contro l'omofobia -che per inciso a parte il comunicato di arcigay qui da noi sembra essere passata inosservata-, vedi i casini giudiziari e la propaganda neoliberista con la retorica del sono tutti uguali), sì, accanto a tutto ciò e prima di chiudere la zip dello zaino o quella della valigia, prima di salire sul treno, mettersi in macchina o fare il check-in, merita questa lettura, pochi minuti sul post di oggi di Civati:
Così e ora
Sono in treno, verso Pisa, per l'ultima festa democratica di questo mese di luglio (la 'Z' di Zambra, frazione di Cascina).
Fuori dal finestrino, un mare bello, «'na tavoletta», dice la signora napoletana seduta qui davanti, in una giornata che lo è anche di più.
Niente FrecciaStronzi, questa volta: è un Intercity, il treno, va più piano, si ferma spesso. Che a me piacciono molto le stazioni intermedie. E poi siamo passati da «G. Quarto». Sapete com'è.
C'è lo scompartimento a sei, quello di una volta. E anche il viaggio è quello di sempre, dalla città al mare. Una tratta familiare per ogni milanese, per ciascun lombardo, che ha un ricordo a ogni fermata. Siamo levantini anche noi, del resto.
Un incontro, un saluto, un gruppo di amici, un momento che non dimenticherà, in quei posti davanti al mare, con le spalle coperte dagli ulivi. E dalla macchia. Che è una bella parola, macchia.
C'è una strana nostalgia, anche un po' impaziente, forse perché sto per fermarmi e sto per compiere gli anni, e mi sembrano così tanti, e che gli anni li compie anche Zapatero, lo stesso giorno, che ha detto che poi smette. E ne compie cinquantuno. Che di solito in Italia uno a cinquantuno inizia. E l'aveva spiegata così, questa cosa che smette: «C'è chi crede si possa essere il miglior centravanti per sempre. Io no».
Ho appena finito di leggere Storia della mia gente di Edoardo Nesi, che avevo acquistato, anche per portargli fortuna, il giorno in cui hanno assegnato lo Strega. La sera. A Nesi.
Se non lo avete ancora letto, fatelo. Parla di noi. Parla della generazione di cui facciamo parte. E della sostanza delle cose. Proprio.
Nel frattempo, mentre scorre il mare e frusciano i tessuti del Nesi, le persone vanno in vacanza. Non so, sarà retorica, ma mi sembrano weekend da bagaglio leggero, perché la crisi colpisce, non ce n'è.
Una coppia di americani chiede informazioni e gli risponde un signore, che va a Chiavari, e parla un inglese un po' problematico. Però ha voglia di fare relazione: e attacca un button spropositato alla giovane coppia.
L'inglese è così così, l'aria condizionata è così così, i ferrovieri trattano le persone così così. Perché è sempre colpa di qualcosa d'altro (nel caso di specie, dell'incendio a Roma Tiburtina).
L'Italia è così così. E forse, però, ora se ne rende conto. E forse capisce che è venuto il momento di fare qualcosa, non solo di lamentarsene da mattina a sera. Forse ora sappiamo che non si può più andare avanti così. E che non è un modo di dire. E che il tempo stringe.
Perché non è colpa dell'incendio di Roma se non sappiamo l'inglese. Per dire. E perché stiamo peggio di qualche tempo fa, in cui sembrava che tutto sommato le cose poi si sarebbero sistemate. E invece.
In ogni caso, da qualche giorno, per colpa di un sms nella bottiglia che mi è arrivato mentre eravamo ad Albinea, mi chiedo se non sia colma la misura. E insomma se non sia venuto il momento di agire, che detto mentre tutti vanno in vacanza, fa un po' sorridere. Ma è così.
La domanda è semplice e la formulo prima di tutto a me stesso, che qualche piccola responsabilità ce l'ho anch'io, anche se sembra perfettamente incredibile anche a me.
E la domanda è: lo liberiamo questo Paese? Dico anche da noi stessi, quando non ci piacciamo? E quando non convinciamo nemmeno noi stessi, appunto, che sembra paradossale poi cercare di convincere gli altri? Ci mettiamo un po' di impegno, di rigore, di entusiasmo? Lo facciamo noi, però, questa volta?
Pensateci, vi concedo giusto due settimane. Poi si parte. Chi ci sta, ci sta. Chi non ci sta, poi, però, non si lamenti. Si tenga quello che c'è. Il debito pubblico, la retorica del declino, una politica che fa specie (in ogni senso). E quella cosa che noi italiani, si sa, non ce la si fa.
Giuseppe, dalla Puglia, mi ha mandato una cosa di Lorenzo che introduce Ora. Che è semplice. Non banale. Semplice.
Ecco. Proprio così. E ora.
(se ci siete anche voi, ve lo dico subito, è meglio)
Il Congresso di Circolo
7 anni fa
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