mercoledì 30 giugno 2010
SUL PONTE SVENTOLA BANDIERA....
Il ministro del nulla
Ancora nessuna traccia delle deleghe di Brancher: forse bisognerà aspettare il rientro di Berlusconi
Intanto i giornali ricostruiscono le accuse del suo processo sulle tangenti
29 giugno 2010
Di ministri improbabili l’Italia ne ha avuti diversi: pochi però sono stati protagonisti di vicissitudini travagliate quanto quelle di Aldo Brancher. Chiusa – per ora – la questione del legittimo impedimento, chiusa – si fa per dire – la questione della paternità politica della sua nomina, è ritornato a galla il tema originario: a che serve il ministero di Brancher? Passano i giorni, infatti, e le deleghe non ci sono. Domenica Brancher aveva farfugliato qualcosa a Raitre, dicendo che le deleghe erano scritte sulla Gazzetta Ufficiale. Sulla Gazzetta Ufficiale non c’erano, la prassi è che vengano comunicati con un decreto pochi giorni dopo la nomina. E quel decreto ancora non c’è. Qualcuno sostiene che il decreto tardi ad arrivare per via di un errore nel nome del ministero – d’altra parte sono così tanti che i nomi stanno finendo – mentre secondo altri finché Berlusconi non tornerà dall’estero non ci saranno passi avanti. Scrive così Repubblica, oggi:
Resta però il giallo deleghe, delle quali il neo ministro al Decentramento è ancora sfornito: dopo che gli sono state attribuite dal Consiglio dei ministri (18 giugno) sono rimaste sulla sua scrivania fino a sabato scorso, tempo utilizzato per limarle ed evitare sovrapposizioni di competenze con il ministro alle Regioni, Raffaele Fitto. Ora, raccontano dai suoi uffici, sono tornate a Palazzo Chigi dove attendono di essere definitivamente firmate del premier Berlusconi, che però potrebbe rimanere all’estero fino al 4 luglio. Con lo spettro di un ulteriore allungamento dei tempi per la loro formalizzazione, ovvero la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Come testimonia lo stesso Brancher, che se sabato era pronto a scommettere su un lieto fine entro domani, ora resta sul vago: «La loro pubblicazione non spetta a me, ma alla presidenza del Consiglio e Berlusconi è in Brasile».
E quindi, mentre l’opposizione non molla la presa e si prepara a presentare una mozione di sfiducia, Brancher continua ad agitarsi e dire cose bizzarre. Qualche giorno fa disse che la gente ce l’aveva con lui perché “l’Italia ha perso i mondiali”. Ieri, a chi gli chiedeva conto del suo ministero senza deleghe, rispondeva: “Ho un’intelligenza media, andrei ad accettare una cosa senza contenuti?”. Insomma: fidiamoci di Brancher, che ha un’intelligenza media.
Sul fronte della paternità politica della sua nomina, l’intervista a Calderoli pubblicata ieri dal Corriere della Sera rimette un po’ le cose a posto: Calderoli dice che la sera prima della nomina era a cena con Bossi, Tremonti e lo stesso Brancher, e durante la cena hanno brindato per il neo-ministro: difficile allora sostenere che non ne sapessero nulla. E dato che la vicinanza tra Calderoli e Brancher è nota, specie in relazione ai fatti che hanno portato al processo Antonveneta, oggi Repubblica racconta uno di quegli episodi: il contenuto di un interrogatorio del 15 maggio 2009 da parte dello stesso Calderoli. Fiorani dice di aver versato due tangenti a Calderoli, entrambe per mano di Aldo Brancher. Calderoli nega tutto.
Il primo episodio è avvenuto tra marzo e aprile 2001: una sorta di ricompensa per la presentazione di un candidato gradito alla banca nel collegio di Lodi, una busta consegnata da Donato Patrini, uomo di fiducia di Fiorani, allo stesso Brancher all’autogrill di San Donato Milanese. Patrini ha ammesso il fatto, ma ha più volte ribadito di non aver mai conosciuto il contenuto della busta. Fiorani invece ha rivelato che lì dentro c’erano 200mila euro per Brancher da dividere con Calderoli.
Il secondo episodio viene collocato a Lodi, nell’ufficio di Fiorani, il 31 marzo 2005. Questa volta è Silvano Spinelli, segretario di Fiorani, a preparare la busta. Dentro vi sono altri 200mila euro per sostenere in Parlamento “il partito” del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Fiorani la consegna sempre a Brancher «il quale – scrive il pm – raggiungeva Calderoli, che si trovava con lui in quel luogo, e divideva con costui la somma in parti uguali».
Ma cosa è successo? Il pm nell´interrogatorio lo incalza, vuole sapere se ha visto passare di mano la busta. «Brancher – chiede Fusco – era rimasto più indietro rispetto agli altri?». Calderoli non ha dubbi: «Io ero davanti di sicuro, anche per il cerimoniale. Quello che è accaduto alle mie spalle non ho potuto vederlo e quindi non posso narrarlo». E taglia corto: «Brancher non mi ha mai dato denaro».
La posizione di Calderoli è stata archiviata. Brancher invece sarà presto rinviato a giudizio: oltre a questi due casi i pm gli contestano altri quattro capi d’imputazione, sempre relativi a tangenti e bustarelle.
martedì 29 giugno 2010
Pomigliano D'Arco once again
Il messaggio è chiaro, ma gradiremmo tuttavia che il ministro spiegasse per esteso il significato di questo “essenziale”. Pane e acqua? O si arriva generosamente alla pasta al sugo? E ci si può aggiungere anche l’olio, o il ministro lo ritiene inessenziale?
lunedì 28 giugno 2010
Le Aquile di Tirana
Questo a fianco e' Bossi fotografato tra le maglie bianco-verdi a strisce orizzontali della nazionale padana. "Nazionale" che vorrebbe essere il simbolo dell'orgoglio dell'autoctona e incontaminata purezza dell'inesistente Padania.
Ma per l'iconografia del calcio la maglia a strisce orizzontale bianco-verde e' inconfondibilmente la maglia del Celtic di Glasgow.
Fin qui ci sarebbe solo un banale caso di "plagio" o al massimo di "lesa maestà ", ma la nemesi si consuma beffarda quando ci si sofferma a riflettere su cosa sia il Celtic di Glasgow. Il Celtic, infatti, e' la squadra degli immigrati irlandesi in terra di Scozia (Glasgow e' proprio di fronte alle coste d'Irlanda): i suoi colori bianco verdi (che sono quelli irlandesi), il nome stesso ("celtici", che sta per irlandesi), la sua forte connotazione cattolica (i tifosi sono cattolici come gli irlandesi, in opposizione ai tifosi dei Rangers che sono protestanti) sono i tratti distintivi che gli immigrati irlandesi hanno sublimato nella loro squadra di calcio. E il fatto che la squadra "degli immigrati" sia diventata un simbolo della terra che li ha ospitati (la Scozia e Glasgow, protestante e britannica, quindi oltre modo ostile...) annoverando un seguito di tifo popolare e profondamente scozzese pur mantendo i suoi connotati irlandesi, e' un clamoroso esempio di come lo sport sia un efficace veicolo di integrazione.
E' un po' come se gli immigrati, chesso', albanesi, fondassero, in piena Brianza o in una valle varesina, una squadra di calcio chiamandola qualcosa tipo "Le Aquile di Tirana", con la maglia con i colori dell'Albania e che questa diventasse una delle squadre per cui i brianzoli (o i varesini) tifano con piu' accanimento e orgoglio, tipo l'Inter o l'Atalanta... Sarebbe bello, no?
Quanta distanza (e quanta tristezza) c'è nell'accostamento delle maglie del Celtic a quelle (ahinoi identiche) della "nazionale padana"...
domenica 27 giugno 2010
Soldi & Potere?Welcome To (Maffya) Hell!
Se e' vero, come sostiene Eric Hobsbawn, che l'arte anticipa sempre la storia, bisogna sottolineare allora come la fioritura di autori italiano negli ultimi 10 anni e i temi delle loro narrazioni (la cosiddetta new italian epic) facciano ben sperare. Da carmillaonline segnliamo tre opere appena uscite che stanno sta il politico, il sociale e il thriller.
Trittico Montecristo, Gli anni nascosti, La città nera: il grande ritorno del thriller politico Italian-style
di Alan D. Altieri
Guess what, proprio quando speravamo di essere al calduccio e al sicuro qui nel paese felice (Hey, suckers, we’re not in Kansas anymore...) della krikka appalti inkrikkati (... we’re IN the dirty, slimey, bloody money, ya, scumbags!), della penisola deglignotidioti (just dump the big-mouthed faggot!) e dei boiardi incollati a poltrone d’oro che galleggia (what are THEY farting about anyway?), proprio quando contavamo che sulla carta straccia dei libri (wow, you still got THAT CRAP down here?) si potesse finalmente parlare solo di nevrotike, grotteske, ma soprattutto fasulle pippe mentali (that way ya don’t realize ya terminally screwed, ya morons!), ecco che un’avanguardia di autori di sfondamento scaraventa una chiave inglese bella grossa nei già scricchiolanti ingranaggi della turpe finzione propalata dal vertice.La chiave inglese in questione si chiama thriller politico.
Esatto (They’re ba-aaccckkk!): a quasi quarant’anni dalla stagione crudele e incandescente dei Flaiano, degli Sciascia, dei Rosi, dei Petri, a dieci anni della micidiale doppietta contro un potere putrido e putrescente a firma dai grandiosi Giuseppe Genna (Nel nome di Ishmael, Mondadori, 2001) e Giancarlo De Cataldo (Romanzo criminale, Einaudi, 2002), a meno di cinque anni dal coraggioso, tuttora imbattuto panzer Roberto Saviano (Gomorra, Mondadori, 2006), nel fulcro di quello che sempre più appare come il crepuscolo dell’ormai ventennale neo-regime itaGLiotiKo a base di puttane-papponi-tossici-&-killer, ecco che arriva una nuova bordata sotto il galleggiamento di testi tanto brutalmente provocatori quanto mortalmente reali.Il nucleo: l’infamia, intrinseca & endogena, del potere.
Ad aprire le ostilità è Stefano Di Marino, professionista consumato della narrativa d’avventura, estimatore e cultore dell’intera mistica salgariana, vate della cinematografia d’azione tout court. Il suo non è un colpo singolo ma triplo: il Trittico Montecristo (Un uomo da abbattere, Giorno maledetto, Stagione di fuoco, Il Giallo Mondadori Presenta, 2008/2009) è verosimilmente una delle più significative trilogie dell’intrigo politico - e del politicamente scorretto - apparse degli ultimi tempi. Al centro del maelström, Dario Massi, poliziotto senza nessuna paura ma con molte macchie sull’anima, al comando di una mai meglio definita “squadra speciale anti-crimine”. Attorno a lui, in un’itaGLia che sembra un collettore cloacale esploso (sounds familiar?), un sanguinoso e sanguinario tsunami di attentati, omicidi, tradimenti, corruzioni, complotti (hold on, man, not HERE! Yeah, right HERE!). Contro di lui, un ripugnante, malefico, osceno “Grande Vecchio” costretto a un esilio forzato e forzoso. Un “Grande Vecchio” che è sempre rimasto della stessa idea e che ora pianifica una grande rentrée a base di potere (mafioso) e di regime (militare). Precisamente: (oh, no, not THAT! Yeah, man: THAT) golpe.Già diventato oggetto di vero & proprio culto tra gli aficionados del conspiracy thriller, il Trittico Montecristo è in realtà un duro & puro apologo politico. Tra allusioni al e citazioni dal capolavoro di Dumas come parte integrante del plot, tra fosse senza nome stile Nacht und Nebel e giorni di ordinario massacro stile Bloody Sunday, tra un Montecitorio da bordello e un Vaticano da Suburra, il lavoro di Di Marino spiazza e coinvolge, risucchia e agghiaccia. A quando il Quirinale veramente sotto assedio?
Meno rutilante ma più inquietante, meno piombato ma più premeditato, meno frenetico ma più subdolo è Piernicola Silvis, talento naturale della narrativa d’inchiesta, con Gli anni nascosti (Cairo, 2010). In questo romanzo, l’itaGLia al culmine della Guerra Fredda raffigurata da Silvis davvero altro non è che “un’espressione geografica”. Una (non)società ignara e ignava, impotente e imbelle, ridotta a viscido nodo gordiano da forze al di sopra e al di là. Forze al limite del metafisico ma senza limite di potere, forze che spaziano dall’impero ameriKano a totalitarismo sovietiKo, passando per lo spionaggio della Germania Est e gli apparati di contro-rivoluzione dei “poteri forti” in situ. E anche qui, come nel trittico di Di Marino, l’io narrante è un uomo a difesa (in teoria) dell’ordine (oh, yeah, which “order” is that?). L’Antonio Lami dei servizi segreti (deviant? Who are you kidding?) protagonista dello straordinario testo di Silvis riesce a sintetizzare tutta l’ambiguità, l’acquiescenza e l’onnipresenza di fin troppe figure sia del nostro passato che del nostro presente. Personaggi-ombra che osservano senza essere notati, influenzano senza essere fermati, manipolano senza essere contrastati. Personaggi-ombra a loro volta (forse) osservati, influenzati, manipolati in un labirintico gioco di scatole cinesi della autodistruzione.Mentre il golpe presentato da Di Marino è un’apoteosi di feroci reparti d’assalto e sferraglianti autoblindo da battaglia, la presa del potere costruita da Silvis è un’orgia di carte bollate inventate e martellamenti televisivi distorti. Hey, kids, ya listening out there? Il tutto fino a un giro di chiglia conclusivo talmente surreale da diventare mortalmente reale.
Ed è precisamente in una mortale realtà futuribile che ci scaraventa Mauro Baldrati con La città nera (Perdisa Pop, 2010). L’anno di disgrazia è il 2106. L’ordinamento demoKratiKo (o qualsivoglia imitazione del medesimo) è svanito, al suo posto c’è una seconda Repubblica Sociale (oh, man! Like... Again?). Roma non è più Roma: è solo la “città nera”. Strade senza nome, case senza numero. Ricchi e potenti, gangster e concubine, mentitori e infami, asserragliati in manieri fortificati. Tutti quelli che restano, lasciati ad agonizzare in un unico, immane, ripugnante slum da quinto mondo. Gli uomini della polizia di stato sono ridotti a raccoglitori della feccia che si ammucchia in quei devastati quartieri-immondezzaio. Chi mantiene “ordine & legalità” è una macabra falange chiamata Guardia Pretoriana, squadre della morte pompate da metamfetamina all’ultimo stadio al cui confronto le Waffen-SS sono aspiranti veline. C’è una sorta di “Resistenza”, certo, la quale però appare sempre più disgregata, sempre più disperata. Eppure, comunque vista come una minaccia. Da qui la difesa al limite dell’orrido di un Potere deciso a passare in linea retta dall’omicidio al genocidio. Attingendo a piene mani dall’incubo totalitario orwelliano, Baldrati prende pressoché tutte le componenti distorte della società contemporanea e le trascina ben oltre le estreme conseguenze. Ma la domanda ingombrante rimane: sulla base di quanto osserviamo qui e ora, quanto effettivamente estreme sono quelle conseguenze?
Tre autori che più diversi uno dall’altro non potrebbero essere, tre lavori politicamente scorrettissimi che condividono un unico, esplosivo denominatore comune: la radiografia impietosa e ingrata, inesorabile e ineluttabile, di ogni singolo crimine, immaginabile e inimmaginabile, che uno stato criminale può commettere. E che soprattutto vuole commettere.
sabato 26 giugno 2010
Spegni la TV
L'undicesima edizione della protesta, il 26 e 27 giugno, conta 200mila adesioni su Facebook. La novità: ingressi agevolati a mostre, cinema e teatri. Per alzarsi dalla poltrona e reagire ai palinsesti ormai al palo.
L'invito è sempre quello: "Spegni la tv", ma quest'anno arriva ancora più forte dalla Rete. Ad annunciarlo è Sciopero.tv 1, che ormai da dieci anni lancia l'appello via web perché i telespettatori decidano, almeno per due giorni, di lasciare il telecomando sul tavolo. Quest'anno l'appuntamento è per il 26 e 27 giugno, un weekend di digiuno televisivo per protestare, ancora una volta, contro l'impoverimento dei palinsesti. Un evento rivolto agli scontenti del piccolo schermo che per due giorni potranno abbandonare il divanoper dedicarsi ad altre attività più salutari, sportive o intellettuali che siano. A chi preferisce queste ultime è dedicata una serie di sconti e agevolazioni per godersi la città tra musei, teatri, circoli culturali e negozi che aderiscono al progetto."Cambia programma, esci di casa". Per rispondere all'appello basta consultare le iniziative 2 in Italia sul sito dedicato all'evento, che per ora annovera Roma, Milano, Napoli, Ravenna, Palermo e Verona. Già solo nella capitale le agevolazioni sui prezzi coinvolgono diversi musei, dai Capitolini (ingresso ridotto) al Mercato di Traiano, dall'Ara Pacis al Macro, dal Museo di Roma in Trastevere al Planetario. L'offerta milanese punta anche su visite guidate (è il caso dell'Aquario
Civico) nonché su un intrattenimento alternativo a quello della tv: a cominciare dall'entrata ridotta per assistere allo Zelig Cabaret, cui si aggiungono le proiezioni del Museo del Cinema e gli spettacoli del Teatro Cinque.Tantissime adesioni. L'edizione 2010 dello "sciopero dei telespettatori" parte già forte di oltre 200.000 adesioni via Facebook, dove l'iniziativa ha visto la partecipazione di telespettatori si sono aggiunti musicisti, intellettuali, giornalisti, scrittori. "Spegnere la tv è l'unico modo che abbiamo per protestare", spiegano gli organizzatori di esterni.tv 3 sulla pagina del social network e aggiungono: - "Proponiamo di uscire all'aperto con la propria famiglia o i propri amici, sfruttando i parchi, le piste ciclabili, gli spazi pubblici e culturali". Come ogni anno, lo scopo è quello di far cadere gli ascolti per rivendicare "programmi di qualità, di approfondimento vero, imparziali e privi di volgarità". Per rendersi conto una volta ancora che con meno tv si vive meglio.
venerdì 25 giugno 2010
La partita del Piemonte
Bresso vuole ricandidarsi ma Chiamparino è già in pista, e Fassino vuole prendere il suo posto
Tra meno di una settimana il TAR del Piemonte si esprimerà sui ricorsi presentati da alcune liste del centrosinistra all’indomani della vittoria di Roberto Cota alle ultime elezioni regionali: secondo i ricorrenti, infatti, la presenza nel centrodestra di una lista – quella dei Pensionati – candidata in modo irregolare, con diciotto firme false su diciannove, invaliderebbe il risultato elettorale e renderebbe quindi necessaria la ripetizione delle elezioni. E con l’avvicinarsi del primo luglio, il clima tra le forze politiche si sta facendo particolarmente nervoso.
Iniziamo dal centrosinistra. Poco dopo la presentazione del ricorso, la presidente uscente Mercedes Bresso aveva ritirato il suo appoggio all’iniziativa legale, chiedendo ai suoi alleati di fare lo stesso e riconoscere la vittoria di Cota. Da qualche giorno, però, l’atteggiamento di Mercedes Bresso nei confronti del ricorso è cambiata del tutto: non solo l’ex presidente ha detto di essere interessata più che mai al suo esito, ma si è anche detta sicura che “entro metà luglio certamente verranno annullate le elezioni” e che “la vittoria è molto più che nell’aria”. Sembra che la svolta si debba al fatto che Bresso – in caso di accoglimento del ricorso da parte del TAR – voglia sfidare nuovamente Cota, lasciare l’incarico europeo alla quale è stata nominata di recente ed essere nuovamente la candidata del centrosinistra. Lo ammette anche lei, quando dice che il candidato “si deciderà” ma che “eliminando anche solo una piccola parte dei voti truffa con cui Cota è stato eletto governatore, io avrei vinto le elezioni, quindi non sono un candidato così debole”. Non è detto che tutti siano d’accordo con lei. Per due ragioni. La prima ragione sta proprio nelle giravolte con cui Bresso ha prima appoggiato il ricorso, poi lo ha abbandonato, per poi appoggiarlo nuovamente. “Bresso si vergogni, ha mentito ancora ai piemontesi”, diceva solo un mese fa Stefano Esposito a seguito del voltafaccia sul ricorso. E Stefano Lepri, vice capogruppo del PD in regione: “Qualche giorno fa Bresso aveva dichiarato di avere il dovere di lottare ed era rimasta l’unica a farlo. Prendiamo atto che la coerenza è un’altra cosa”.
L’uscita di Bresso mira a stoppare il centrosinistra, che sembrerebbe invece orientato – in caso di accoglimento del ricorso – a puntare sul sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. Lo racconta oggi il Corriere della Sera.
È lui il candidato su cui il centrosinistra punta per riuscire a ottenere la rivincita. A Largo del Nazareno si ritiene che tornare in campo con Bresso sarebbe un errore che comporterebbe il rischio di una nuova sconfitta. Di qui la scelta di Chiamparino, che è un primo cittadino molto amato e stimato. Il fatto che debba lasciare la poltrona di sindaco non è un problema, visto che il suo mandato scade il prossimo anno e che, quindi, a Torino sono comunque previste delle elezioni amministrative.
E qui si apre un’altra partita: chi sarà il successore di Chiamparino da sindaco di Torino? La questione potrebbe intrecciarsi con quella delle regionali e quindi non è improbabile che la trattativa possa di fatto essere unica. Alcuni hanno fatto il nome della stessa Bresso, che in questo modo di fatto scambierebbe il suo incarico con quello di Chiamparino, ma c’è una persona che da tempo ha fatto sapere di essere intenzionata a fare il sindaco di Torino.
Non è un mistero che Piero Fassino ci punti molto: il desiderio dell’ex segretario dei DS sarebbe quello di lasciare il Parlamento nazionale per occuparsi della sua città. Chiamparino all’inizio era contrario a questa ipotesi e aveva pubblicamente frenato sulla candidatura di Fassino. Ma adesso che la situazione è cambiata e che probabilmente Chiamparino correrà per la presidenza della regione, forse le sue posizioni si ammorbidiranno.
Sebbene l’esito dei ricorsi sia tutt’ora più che incerto, l’esistenza stessa di questo dibattito ci dice quanto nel centrosinistra l’ipotesi di ripetere le elezioni regionali sia vista come molto concreta. Ma se questo non fosse sufficiente a seguire con attenzione l’attività del TAR, si veda allora come il centrodestra ha cambiato approccio nei confronti della questione.
Per settimane Roberto Cota ha ostentato tranquillità e sicurezza, dicendosi certo che il TAR non avrebbe decretato una ripetizione del voto che sarebbe stata, secondo lui, uno schiaffo alle intenzioni elettorali dei piemontesi. Adesso il clima è molto cambiato. Qualche giorno fa, durante una seduta del Consiglio regionale, Cota ha avvertito che “per usare un eufemismo, i piemontesi non la prenderebbero bene”. Dopo poche ore ha rincarato: “I golpe li fanno in Sudamerica, se accadesse qui sarebbe una rivolta. Non è facile rubare le elezioni”. Intanto PDL e Lega hanno tappezzato Torino di manifesti con la faccia di Cota imbavagliata, annunciando per lunedì una fiaccolata “per difendere il voto dei piemontesi da chi non sa perdere”. Siamo alle accuse di golpe e ai manifesti in giro per la città: quando arriverà il verdetto del TAR, la campagna elettorale potrebbe già essere ricominciata.
giovedì 24 giugno 2010
Ancora su Pomigliano D'Arco
Sta avvenendo che la globalizzazione passa dalle merci alle persone. Finora sapevamo che la globalizzazione aveva unificato i mercati. Per cui una merce prodotta in Corea o in Polonia a prezzi più bassi non aveva ostacoli ad essere venduta in mercato di un paese europeo. Il prezzo più basso poteva avere ragioni diverse: costi di trasporto differenti; mano d’opera a buon prezzo; differenti leggi sulla sicurezza; minor incidenza della burocrazia, ecc..L’azienda produttrice, di solito una multinazionale, si faceva forza di un mercato globale in cui il vantaggio di produrre in un Paese si concretizzava nel commercializzarlo in un altro.
Il sistema di produzione capitalista ha sempre avuto la necessità di non avere confini e limiti. I processi di unificazione degli Stati sono avvenuti già nel XIX secolo proprio per questo motivo.
Quella che oggi chiamiamo globalizzazione è il portare alle estreme conseguenze questo processo.
Il fatto nuovo è che dalle merci la globalizzazione si è estesa, inevitabilmente, alle persone, o meglio ancora ai lavoratori. Del resto i lavoratori sono, come sappiamo, una merce, seppure del tutto particolare. Tant’è che anche ai lavoratori si applica la legge della domanda e dell’offerta.
A Pomigliano la Fiat, attraverso Marchionne, un manager globale, pone una questione logica economicamente. Ovvero se dobbiamo produrre le auto in Italia (un prodotto in cui non c’è un alto valore di innovazione tecnologica) occorre che le condizioni di produzione siano le stesse di altri Paesi, quali ad esempio Polonia, Brasile o Est Asiatico. Altrimenti quelle auto sono fuori mercato. La globalizzazione sta dalla parte del capitale.
Ma perché ? C’è una risposta complessa a questa domanda che riguarda il che cos’è la tecnica, non uno strumento, ma l’essenza stessa della ragione dell’Occidente. Ma è un’altra storia.
Ciò che risulta chiaro è che per non soccombere la sinistra avrebbe dovuto percorrere fino in fondo la strada dell’internazionalizzazione che aveva intrapreso all’origine. Invece l’ha abbandonata, ha avuto paura della globalizzazione, si è ritirata in difesa. Ha giocato nello spazio dello Stato e della Nazione, dei diritti acquisiti. Non ha rilanciato sui diritti internazionali, sulla solidarietà internazionale, sull’estensione dei diritti. E’ un problema dell’Europa e di tutta la sinistra non aver riconosciuto i movimenti che su questo puntavano.
In Italia ci siamo arroccati sulla difesa dell’esistente: la Costituzione intoccabile, l’inno, la bandiera, i diritti acquisiti, la sicurezza, le conquiste sindacali. Nessuna idea di un mondo che si apre, nessuna idea di partito radicalmente diverso, necessario visto che il partito aveva senso quando riproduceva la forma Stato, ma ora che questa è al tramonto è chiaro che occorreva una svolta.
Insomma lo dico in maniera chiara, provocatoria, il Capitale è riuscito ad essere più rivoluzionario, più capace di innovare, ha agito pensando globalmente.
E’ questo che mi è venuto in mente sentendo Marchionne. Mi è tornato alla memoria il pamphlet di Felix Guattari, Il Capitale mondiale integrato, del 1982. La sinistra storica ha liquidato il pensiero “anomalo” come sciocchezze, mentre i manager globali sembrano averlo fatto proprio.
Avremmo dovuto capire che il capitale “ si è sempre costituito a partire dai movimenti di deterritorializzazione di tutti gli ambiti dell’economia, delle scienze e tecniche, dei costumi, ecc.”
I manager del capitale globale l’hanno compreso. Noi abbiamo preferito guardare nel nostro giardino, controllando lo spazio del potere politico del giorno per giorno, pensando che avremmo potuto tenere fuori il resto del mondo, ma non è stato e non sarà così. Alla destra tutto sommato è bastato assecondare la tendenza, o accelerare i fattori scatenanti.
A Pomigliano hanno capito un po’ meglio qual è la tendenza fondamentale del nostro tempo….
La sfida è ancora aperta, ma il minimalismo non serve a molto.
mercoledì 23 giugno 2010
Primus inter pares
martedì 22 giugno 2010
Primarie ovvero la grande paura
Mercoledí 16.06.2010
Enrico Letta (il nipote del piu' noto Gianni Letta, mentore di Berlusconi...), "Non ho mai parlato con il dg Giuseppe Sala di candidature al Comune di Milano". Enrico Letta, vicesegretario del Partito democratico, smentisce con un'intervista ad Affaritaliani.it, le voci circolate in queste ore che parlavano di una sua richiesta al direttore generale di Palazzo Marino a candidarsi a sindaco di Milano nelle fila del Centrosinistra.
Si dice che lei abbia incontrato Giuseppe Sala e gli abbia chiesto di candidarsi a sindaco di Milano per il Centrosinistra. E' così?"Conosco Sala da molto tempo e l'ho incontrato varie volte per parlare di tutt'altre cose: dell'Expo dei Comuni, ma non di candidature al comune di Milano delle quali non sono competente".
Che cosa ne pensa della candidatura di Pisapia?"Mi sembra una candidatura legittima".
lunedì 21 giugno 2010
Da Pomigliano D'Arco a Evansville
Dopo 50 anni la compagnia Whirlpool ha deciso di chiudere lo stabilimento e trasferirlo in Messico dove il costo del lavoro è più basso. Era l'ultimo polo industriale. Gli abitanti: "Come faremo a sopravvivere?"
WASHINGTON - Chiude una fabbrica. E non solo. Chiude una città intera che da quella fabbrica traeva, da anni, sostegno e lavoro. Dopo 50 anni la compagnia Usa Whirlpool ha deciso di chiudere lo stabilimento di Evansville, aperto nel 1956 nell'Indiana, per trasferirlo in Messico. Costruire frigoriferi oltre il confine Usa è più conveniente, spiegano i dirigenti della Whirlpool dicendo che la fabbrica era diventata "assolutamente non competitiva dal punto di vista dei costi". Perché, ribattono, pagare 18 dollari l'ora ai dipendenti americani quando in Messico il costo per lo stesso lavoro è di 4 dollari l'ora? La decisione è un colpo fatale per gli abitanti che vedono sfumare l'ultima fabbrica rimasta in città e gli oltre mille posti di lavoro - senza contare l'indotto. In pratica la fine del sogno americano per gran parte delle famiglie di Evansville. "Eravamo la capitale mondiale dei frigoriferi", ricorda Randall Reynolds, uno dei lavoratori licenziati. La storia della sua famiglia è strattamente legata a quella della fabbrica. Ci lavoravano il bisnonno, il nonno, il padre. Poi è toccato a lui. E la catena si è interrotta. Prima della Whirlpool la strada della chiusura e dello spostamento della produzione era stata presa anche dalle altre fabbriche cittadine. "I miei genitori raccontano che quando erano giovani c'era lavoro dappertutto - dice Natalie Ford, un marito e un figlio in fabbrica - oltre alla Whirlpool c'erano la Bristol-Myers, la Mead Johnson, la Zenith. Adesso, se qualcuno cerca un lavoro qui in zona, trova il deserto". Le famiglie di Evansville si sentono tradite. "E' una vergogna che Whirlpool abbia deciso di trasferire in Messico i suoi posti di lavoro mentre qui stiamo lottando per la sopravvivenza", afferma Connie Brasel, che da 17 anni lavorava nella fabbrica. Così c'è chi attacca le amministrazioni Usa - da Bill Clinton a Barack Obama passando per George W. Bush - per l'accordo NAFTA che elimina i dazi commerciali per i paesi confinanti come il Messico e il Canada. Ma accanto alla rabbia si fa strada la paura per il futuro. "Come faremo a sopravvivere?" si chiedono tutti, guardando le porte dello stabilimento sbarrate per sempre.
Da Repubblica del 20 giugno 2010
sabato 19 giugno 2010
Il Nordest alla scoperta di Vendola
Nichi Vendola, se non l’avessi visto con i miei occhi, ne avrei dubitato. Ma lunedì scorso, all’assemblea annuale dell’Associazione Industriali di Vicenza, c’ero anch’io. Nella Sala della Fiera, stracolma di associati. Gli imprenditori vicentini – è noto - non sono un pubblico facile. Soprattutto per chi sentono “lontano”.. Per chi ritengono troppo “romano”, statalista, torinese, comunista (una somma dei “vizi” precedenti). Negli anni Novanta, in questa stessa sala, fischiarono Pietro Marzotto. Reo di aver dichiarato il suo voto alla sinistra. Ma, soprattutto, di essere – e di agire come - un “grande” imprenditore in un mondo di “piccoli”. Era il tempo della ribellione del Nordest. Non importa che Marzotto, la sua famiglia e la sua azienda fossero, anzi, siano: venete, vicentine, di Valdagno. Retroterra dell’impresa del Nordest. Agli occhi dei “piccoli” era la “Fiat che si annida tra di noi”. Il capitalismo alleato con lo Stato romano. Dieci anni dopo, sempre a Vicenza, sempre alla Fiera, si svolgeva il convegno del Centro Studi Nazionale di Confindustria, dedicato alla competitività. Era il 18 marzo 2006, vigilia delle elezioni politiche, il cui esito pareva segnato dal trionfo di Prodi e dell’Ulivo. Ma, in quell’occasione, Silvio Berlusconi riuscì a risvegliare gli “animal spirits” degli imprenditori. Inveì contro i profeti della spesa pubblica, il partito delle tasse. In una parola: i comunisti.
venerdì 18 giugno 2010
Dell'inutilita' del PIL
giovedì 17 giugno 2010
La timidezza
mercoledì 16 giugno 2010
E dopo i congressi, le primarie: "condicio sine qua non" per vincere, a Milano come a Rimini
Giuseppe Civati (Pd)Questo continuo tam tam sui nomi non è un po' un modo per mandare avanti nomi della società civile per bruciarli e al momento decisivo candidare un politico di professione? "Il sospetto viene. Il precipitare le cose ora è un po' curioso. Prima delle Regionali ci hanno detto che bisognava aspettare l'alleanza. Dopodiché l'alleanza con l'Udc non c'è stata come non si sono fatte nemmeno le primarie. Magari qualcuno un giorno deciderà di rendere conto dei risultati ma nel Pd, come da tradizione, non succede mai".
Si riferisce a Maurizio Martina (discusso segretario regionale lombardo n.d.r.)? "No, mi riferisco a un modo di fare politica in cui si parla per sei mesi di alleanze con l'Udc e poi l'intesa non si fa ma non succede niente. Tornando alle primarie di coalizione chiedo che si stabilisca una data in cui farle".
Ha in mente una data? "Potremmo farle per esempio a metà ottobre. Ove ci fosse una sola candidatura non avrebbe senso farle, ma non è questo il caso visto che ci sono più candidati. Le argomentazioni di questi giorni non hanno nessun qualità sul piano politico se non quella di sconfessare le primarie. Tutto questo, certe volte, mi fa passare la voglia di fare politica".
martedì 15 giugno 2010
Nuovi e strategici
di Alberto Rossini
In maniera un po’ ripetitiva vorrei provare a riprendere alcune considerazioni. Insisto sul fatto che per essere competitivi e soprattutto per produrre innovazione nei diversi settori dell’economia occorre che ci siano le condizione di base: da un lato nel mondo del lavoro nel rapporto tra imprese e dipendenti, dall’altro nel contesto territoriale. I dati per capire la situazione ci sono, certamente bisogna volerli guardare. C’è, in sostanza, una situazione per cui da diversi anni il lavoro ha assunto la caratteristica di impiego precario, di lavoro a termine, di lavoro a tempo determinato. Basta considerare che dal 2000 al 2009 i contratti a termine sono passati dal 61% al 76,4% mentre quelli a tempo indeterminato sono diminuiti dal 20,6% al 12,7%.
Difficile investire sulle risorse umane in queste condizione. Altrettanto difficile per i lavoratori pensare ad un impegno costante, prolungato, ad una scommessa professionale che li veda partecipi e coinvolti.
Perché, inoltre, studiare, laurearsi, frequentare master e corsi di specializzazione se ciò che cercano le aziende è personale precario? Se le prospettive di carriera sono davvero minime?
I giovani difficilmente arrivano ad avere posti di responsabilità. E’così nella politica dove i quarantenni sono sempre lì ad aspettare il loro turno. Ma la stessa cosa vale nelle imprese. Quanti sono i manager italiani sotto i quaranta anni? Certamente pochi. Mentre all’estero non è così. Tanto per fare un esempio all’Ikea, anche qui a Rimini, i dirigenti ed i funzionari tra i venti e i trenta anni sono molti.
La prospettiva potrebbe cambiare se l’economia conoscesse una nuova fase in cui settori nuovi e strategici prendessero a crescere, magari sostituendo quelli che in precedenza sono stati trainanti, con connotazioni non sempre positive. Penso, ad esempio, al ruolo avuto dall’edilizia che per anni ha sostenuto la crescita del PIL, contribuendo anche a cambiare il volto del nostro territorio, spesso però senza una ricerca della migliore qualità ambientale e territoriale. Le città non sono, diventate più belle.
Sempre dal rapporto della Camera di Commercio traggo le previsioni per il 2012. Le esportazioni sono previste al 15,4% contro il 32,1 dell’Emilia Romagna e il 22,7 dell’Italia. Il valore aggiunto per occupato è al 97,2% contro il 102 della Regione ed il tasso di occupazione è al 43,6% mentre quello regionale è al 45,1. Cresciamo poco, l’occupazione soffre e le esportazioni sono limitate. Certo in un’area caratterizzata dal turismo ci può stare. Ma come va il turismo?
Un ultima osservazione. Non troppo marginale. In questi giorni la Regione ha pubblicato un rapporto sul tema della pianificazione territoriale a 10 anni dall’entrata in vigore della legge 20 che regola gli strumenti urbanistici. Se ne deduce che in Regione siamo la provincia in cui sono stati approvati meno piani strutturali comunali. In sostanza sono pochi i comuni che hanno aggiornato i propri piani regolatori, solo il 23% del totale. Ricordo che la Legge è del 2000, quindi sono passati già 10 anni.
Chissà quanto anche questo contribuisce a frenare quell’innovazione che sarebbe necessaria a Rimini, come nel resto del paese, per farci fare un salto di qualità.
lunedì 14 giugno 2010
Donini all'assalto dell'ancien-regime
Si chiude il congresso dei Democratici. Il neosegretario: il candidato sarà indicato dalle primarie
Il passaggio più forte del suo discorso di consacrazione è quello sulle primarie. L´unico su cui si sofferma l´applauso convinto dei 500 delegati Pd. «Le primarie si devono fare» detta Raffaele Donini. Su questo si gioca la prima scommessa della sua segreteria. Una sfida alla prudenza dei vertici, nazionale e regionale, entrambi in prima fila. Ed entrambi molto più cauti sul tema. Con Pier Luigi Bersani che definisce le primarie «una delle scelte praticabili, a patto che il partito non diventi solo un "notaio"». E il leader regionale Stefano Bonaccini che sta un passo ancor più indietro: «Le primarie si possono anche non fare, se tutti i partiti sono d´accordo».
sabato 12 giugno 2010
La scuola moribonda, spiegata sugli autobus
Le proteste contro i tagli della scuola pubblica sono inermi e senza guida.
A Bologna hanno provato ad allargarle impegnandosi a spiegare il disastro a chi non lo conosce
da Il Post 9 giugno 2010
Le agitazioni di queste settimane sui tagli alla scuola pubblica, da parte di persone che ci lavorano, di genitori, o di semplici persone che hanno cari i destini dell’Italia, conoscono un ostacolo piuttosto particolare: il loro scarsissimo potere, chiamatelo contrattuale o ricattatorio. In quanto servizio pubblico e gratuito -- dettato solo da una nobile intenzione di portare benefici ai cittadini e al paese -- la scuola è per uno stato concentrato sulla cassa solo un costo: il suo indebolimento non ha nessuna controindicazione la corda della pazienza dei cittadini si può tirare a lungo, fino a che si garantisce agli elettori maggiorenni che i loro figli si trovino all’interno di in un edificio scolastico. A loro volta, cittadini, genitori e insegnanti insoddisfatti del servizio non hanno molte armi per far sentire le loro proteste e proposte: la formula dello sciopero non crea conseguenze negative per nessun interese economico, e nemmeno le canoniche occupazioni e manifestazioni, vissute con noia e sfinimento anche dai molti che vi partecipano.
Chi ha cara la scuola e il suo valore per la crescita del paese ha le armi spuntate. E il maggior partito di opposizione, che dovrebbe rappresentare tali istanze di fronte al nemico rappresentato dal governo e dai suoi interventi, non sembra in grado di strutturare, organizzare, dare strumenti e rendere efficace questa protesta. In giro per l’Italia, quindi, si improvvisano manifestazioni ma nella maggior parte dei casi ci si sente inermi e pronti al peggio. Ci sarebbe bisogno di inventive ed efficaci idee di comunicazione e di ampiamento del fronte, o di conquista del manico del coltello.
Sulle prime oggi ha cominciato a lavorare un gruppo di bolognesi, con un’iniziativa piccola come tutte le iniziative che non sono ancora diventate grandi: “Tutti devono sapere“.
Oggi a Bologna piccoli gruppi di persone -- insegnanti e genitori -- in un’ora di punta sono saliti sugli autobus di alcune linee cittadine, distribuendo volantini e informando tutti i passeggeri di quel che sta accadendo alla scuola pubblica.Tre quattro persone ogni gruppo. Appena saliti alcuni iniziano a distribuire i materiali informativi mentre la voce di un terzo si alza, robusta, ma pacata e dice:
"Buon giorno a tutte e tutti.Scusate il disturbo ma la cosa che dobbiamo dirvi è importante, crediamo, non solo per noi.Siamo genitori e insegnanti e vogliamo dirvi che la scuola pubblica, la scuola di tutti sta morendo.E’ sottoposta a un’aggressione senza precedenti.Sui messaggi che distribuiamo sono indicate le ragioni di quello che stiamo dicendo.In poche parole stanno tagliando ore di insegnamento, insegnanti e risorse economiche alla scuola pubblica mentre aumenta il numero degli studenti.Tutti devono sapere che una scuola pubblica sempre più povera prepara una società più ignorante, più divisa e più insicura.Tutti devono sapere che presto la nostra scuola pubblica sarà di serie B.Tutti devono sapere che presto dovremo chiedere un mutuo alla banca per far studiare i nostri figli.Contiamo che anche voi siate sensibili al disastro cui va incontro la scuola dei nostri figli.Contiamo che anche voi ci aiutate a informare tutti.Raccontate a tutti la scena a cui avete assistito oggi perchè tutti devono sapere.Grazie per l’attenzione, noi proseguiamo sul prossimo autobus."
Su Facebook c’è la riproduzione del volantino, l’annuncio delle prossime iniziative e il racconto dell’esperienza di oggi:
Sulle linee 27 e 30 scattano addirittura applausi scroscianti.Ovunque c’è attenzione, partecipazione, curiosità, spaesamento. Molti dicono semplicemente “grazie”. I volantini vengono richiesti da tutti.È proprio vero che la scuola non è finita!E la riprova bisognerà darla ancora giovedì 10 dalle 17 in poi, quando l’Ufficio Scolastico Regionale sarà di nuovo circondato da genitori, alunni e insegnanti per una nuova “Protesta in Festa”.Saremo davanti all’USR, nella piazza e nei giardini limitrofi, “impacchetteremo” la zona con i nostri volantini, assisteremo alle performance di attori, clown e musicisti, faremo un ingresso finale nel foyer del Teatro Comunale dove ci aspettano i giovani artisti che si battono contro l’attacco alla cultura.Giovedì 10 saremo di nuovo a difendere la scuola di tutti e di ciascuno.Perchè noi non molleremo mai.La scuola pubblica è come l’acqua.Tutti devono sapere che non la vogliamo perdere.Per noi non è ancora finita!
Alla fine, il destino della scuola italiana si giocherà nel rapporto di forze tra chi pensa sia uno dei progetti più importanti per una società civile e chi non lo pensa, e negli sforzi che i primi sapranno fare per diventare maggioranza.
venerdì 11 giugno 2010
Il futuro è nel recupero edilizio
Data di pubblicazione: 07.06.2010 di Mario Lancisi
Intervista all’assessore all’Urbanistica della Toscana che ha promesso ai Comitati una revisione del PIT. Su Il Tirreno, 6 giugno 2010 (m.p.g.)
L’errore più grande? «Aver dato autonomia ai comuni senza accompagnarla con adeguato sostegno. Non bisogna tornare al centralismo regionale ma creare ai poteri dei comuni i corrispettivi contropoteri», risponde il neo assessore all’urbanistica Anna Marson dalla sua casa a Mercatale, un borgo vicino a Firenze, che negli ultimi mesi è entrato nell’occhio del ciclone per alcuni presunti scandali edilizi. Da qui, dal suo buen retiro toscano, Anna Marson, veneta, docente di urbanistica a Venezia, dove è stata assessore alla Provincia, ha inviato ieri una lettera di apertura alla Rete dei comitati per la difesa del territorio. L’assessore Marson ha promesso la revisione del Pit, il piano integrato del territorio, del suo predecessore Riccardo Conti. Sull’urbanistica si volta pagina.
giovedì 10 giugno 2010
Qualcosa di terribilmente nuovo
C’è chi scuote il capo con sopportazione e c’è chi s’indigna sanguigno, col repertorio svariando da “ma dove siamo arrivati…” a “non si può andare avanti così!”. In realtà nessuno si stupisce più davvero di quelle che si insiste a chiamare le “sparate” della Lega: sono entrate nella quotidianità e, giorno dopo giorno, hanno conquistato con l’abitudine lo spazio da cui si genera la legittimazione. Oggi è il mio collega Salvini che va all’attacco del 2 giugno, ieri era Calderoli che bruciava la pira delle leggi (e che a me ha fatto venire in mente Farenheit 451), prima ancora Castelli chiedeva la croce sul tricolore. Dopo la campagna contro i menù etnici è in arrivo il lancio delle botteghe ‘verdi’ a chilometro zero che alzano il cartello “non vendiamo banane e ananas”.Non sono solo dichiarazioni e gesti d’impatto momentaneo o superficiale, e non credo si tratti nemmeno solo di tattica politica. Ho invece la sensazione che ci troviamo di fronte ad un fenomeno in cui la comunicazione risulta ad altissimo impatto perché il messaggio politico viene potenziato dall’attivazione di un forte coefficiente simbolico.Voglio dire che almeno una parte dell’efficacia del messaggio della Lega risiede nella sua capacità di riattivare significati che costituiscono una parte non secondaria dell’immaginario collettivo. Ovvio, si dirà, il rituale simbolico leghista che richiama alla mente gli elementi primari, la terra e la comunità locale, le radici sicure a cui tutti abbiamo bisogno di restare aggrappati, attecchisce bene in tempi di incertezza, precariato e timore sociale.Ma è una considerazione che mi serve per fare un passo ulteriore. Perché il vero punto, l’interrogativo che mi pongo, è un altro: qual è il serbatoio simbolico cui può e dovrebbe attingere un partito riformista italiano del ventunesimo secolo? Ossia, ci poniamo il problema di istituire una sintonia anche emotiva con il Paese, con la comunità cui ci rivolgiamo?La Lega, proprio in questi giorni, non si fa scrupolo di modificare un simbolo per eccellenza come la bandiera della provincia di Bergamo, facendola più simile a sé nel colore, espellendo il nome latino per far posto a quello dialettale.Nel nostro campo, simboli identitari di fortissimo impatto come lo scudo, la falce e il martello, sono stati sostituiti prima da gentili e rassicuranti simboli vegetali, poi da un asettico marchio-logo. L’osservazione non equivale a un giudizio, e chiaramente indietro non si torna. Ma se qualcosa abbiamo perso, dobbiamo trovare altro: qualcosa di terribilmente nuovo.
Questa nota l’ho pubblicata su “ilpost.it” di Luca Sofri, che ringrazio per l’ospitalità. Qualche giornale ha pensato che valesse la pena di recuperarne il succo, ma temo che abbiano spremuto troppo e alla fine quello che ne è rimasto è un concetto come “cambiamo il logo del Pd”. Eppure bastava leggere le ultime righe…
mercoledì 9 giugno 2010
Le italiane rapiscono i bambini
Sono certo che oggi i direttori dell’Agi, del Giornale e di tutte le altre testate che nel pomeriggio di ieri hanno titolato on line:
"Neonato rapito, caccia a due donne rom"
si recheranno a presentare le loro scuse presso la comunità rom a loro più vicina...
martedì 8 giugno 2010
«Noi a Firenze facciamo così». La sfida di Renzi sul suo blog.
Mi hanno chiesto di scrivere un testo per “L’Ambasciata teatrale”, sulla falsariga di un celeberrimo discorso del passato. Graditi, commenti, critiche e integrazioni a sindaco@comune.fi.it.
Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze pensiamo che la politica sia una sfida e non un problema, un sogno e non un incubo, un servizio e non un carrierificio.
Noi a Firenze facciamo così. Noi a Firenze pensiamo che la felicità non venga dal successo, ma che l’unico successo sia essere veramente felici. E poniamo il nostro onore nel meritare la fiducia di chi ci vuole bene. Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze pensiamo che i medici debbano curare le persone, non denunciarle. E crediamo che l’altro sia una miniera di suggestioni, non un coacervo di ossessioni. E vogliamo vivere a viso aperto, non asserragliati nelle paure. Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze pensiamo che i musei e le biblioteche debbano stare aperti fino a mezzanotte e offrire un’alternativa alla prima, alla seconda e anche alla terza serata televisiva. Pensiamo che sia commovente far declamare Dante da mille persone in mezzo alla strada, nei vicoli, negli angoli bui della nostra quotidianità. E pensiamo che la musica educhi il cuore al bello: e quando possiamo apriamo i nostri teatri e mettiamo i maxischermi col Maggio Musicale nelle nostre piazze. Noi a Firenze facciamo così Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze pensiamo che una piazza di mestiere debba fare la piazza, non l’incrocio autostradale, per cui dove possiamo pedonalizziamo, senza indugio. E quando c’è da decidere si decide: non si fa una commissione per decidere fino a quando si rinvia la decisione. E vogliamo che ogni cittadino abbia una piazza, un parco, un giardino a meno di dieci minuti a piedi da casa: perché l’urbanistica si fa occupandosi degli spazi da tenere vuoti, non solo degli spazi da riempire, di cemento e di banalità. Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze vogliamo vincere, altro che partecipare. Ma sappiamo da molto tempo, per esperienza diretta, che è meglio secondi che ladri… Noi a Firenze facciamo così. Noi a Firenze facciamo così. Noi a Firenze dobbiamo tutto alle donne. È per l’intelligenza di una donna che è stato salvato il cuore della città. E’ per la nostalgia di due donne che c’è molta Firenze a Parigi. È per gli occhi di una donna che è stato scritto il più grande capolavoro della letteratura mondiale. Noi a Firenze combattiamo la mercificazione della donna, la sua umiliazione, la costrizione a ruolo di portatrice sana di lato B che tanta parte del mondo (anche politico) di oggi vorrebbe. Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze facciamo così. Ci piace il Palazzo Vecchio, ma vogliamo le facce nuove. E pensiamo che il ricambio generazionale non sia un tema da convegni, ma una possibilità da osare, una risorsa da usare. E pensiamo che chi fa politica debba rischiare, senza avarizia, mettendosi in gioco fino in fondo. Noi a Firenze facciamo così.
Noi a Firenze facciamo così. Quando c’è un grande architetto gli facciamo fare la Cupola del Duomo, ma anche il Salone degli Innocenti: il luogo di Dio, ma anche il luogo degli ultimi. Perché noi a Firenze pensiamo che si può essere solidi solo se si è solidali. E che si può custodire la bellezza solo se si è capaci di regalarla. Noi a Firenze facciamo così…